Lunedì 29 Aprile 2024

Quei ragazzi che si isolano in casa. "Impauriti e fragili, un’emergenza"

Il neuropsichiatra avverte: cresce il fenomeno del ritiro sociale. "Temono il giudizio e il fallimento". "Troppi genitori non riconoscono il disagio e lo giustificano. Ma i figli hanno bisogno della loro presenza"

Una scena del film Ready Player One

Una scena del film Ready Player One

Uno spettro si aggira tra i ragazzi: a volte li sfiora soltanto, ma tanto basta a fare loro molto male; a volte li invade, impedendo di vivere. Lo spettro si chiama ritiro sociale. Chiudersi nella propria stanza ma anche rinunciare a una serata con gli amici, e poi a poco a poco allo sport, alla scuola. Alla vita. "C’è sempre stato, adesso però se ne parla di più" spiega Stefano Vicari, professore di neuropsichiatria infantile all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e direttore dell’Unità operativa complessa di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che ha dato alle stampe per il Mulino il libro Adolescenti che non escono di casa (Non solo Hikikomori) scritto insieme alla collega Maria Pontillo, psicoterapeuta del Bambino Gesù. La molla è la paura del giudizio, la cura educare i figli fin da piccolissimi alla consapevolezza dei propri limiti, e da adolescenti non lasciarli soli.

Professore, lei spiega che al di là dei fattori neurobiologici o di temperamento o ambientali, la causa scatenante del ritiro sociale degli adolescenti è la paura del giudizio. Come si fa a insegnare ai ragazzi a non avere questa paura?

"Non c’è una ricetta unica; quello che possono fare i genitori è educare fin da subito il bambino futuro adolescente a gestire le proprie emozioni e le proprie capacità. Avere paura del giudizio degli altri in fondo è legato a una ridotta sicurezza nei propri mezzi e capacità. Il benessere psicologico, la salute mentale si basa su due cose essenziali: l’autocontrollo e cioè la capacità di gestire le emozioni con tranquillità e autonomia, e poi la possibilità di costruire delle relazioni positive. I bambini imparano fin da piccolissimi. E se di fronte a un no detto da un genitore il bambino ha una tempesta emotiva – i vecchi capricci – e il genitore non fronteggia la frustrazione del bambino, oppure ci sono altri che intervengono, i nonni per esempio, il piccolo farà fatica a capire che in certi casi non è possibile avere un premio immediato ma è necessario aspettare, tollerare il tempo che passa. E così se un bambino non è educato a gestire i successi – perché quando li raggiunge viene esaltato e ha un’immagine di sé eccessivamente positiva – e i fallimenti che inevitabilmente arriveranno, di fronte a una difficoltà gestirà la sua situazione in modo poco aderente alla realtà".

Cosa possono fare i genitori?

"I genitori devono aiutare il bambino a capire chi è, ad avere un’immagine di sé: quali sono le sue capacità, i limiti, le competenze, anche a tollerare gli aspetti in cui non riesce. Attività che i genitori oggi fanno con grandissima difficoltà. Lo dico anche per i bambini molto piccoli, di 12 anni. Bambini che dormono con mamma e papà fino a tarda età: mi capita spesso di dire ai genitori perché vostro figlio che ha 7 anni dorme ancora con voi? E mi rispondono: eh professore sa, io mi sento più tranquilla se il bambino dorme con me. Cioè il bambino diventa una rassicurazione per i propri genitori. Sui bambini vengono proiettate insicurezze che appartengono al mondo dei genitori. Come facciamo ad avere degli adolescenti più sicuri, capaci di affrontare il mondo? Beh, dobbiamo preoccuparcene fin da quando sono piccoli".

C’è un danno in corso, non a livelli clamorosi. Quali sono i segnali?

"Non tutti si accorgono del disagio vissuto dai propri figli. In generale si tende a giustificarli, a dire: gli adolescenti sono così... Bisogna preoccuparsi dei cambiamenti che perdurano nel tempo. Le giornate “no“ sono normali ma se per settimane o mesi il proprio figliofiglia non vuole uscire di casa, si chiude sempre di più, sta a letto tutto il giorno, è sveglio di notte e il giorno dorme, mangia in modo irregolare, prima aveva un ottimo rendimento scolastico e poi peggiora, oppure faceva sport e non lo fa più, usciva con gli amici e poi non esce più, ecco i cambiamenti sia delle funzioni vitali (il sonno e il mangiare) sia delle attitudini comportamentali (il rendimento scolastico ad esempio) dovrebbero destare preoccupazione. Che non vuol dire intervenire subito con lo psichiatra però intanto i genitori possono cercare di capire e dialogare col figlio, fare domande".

È un problema generazionale?

"No. C’è una fragilità che da sempre riguarda gli adolescenti. Questa emergenza del ritiro sociale non è una cosa che noi scopriamo con la Dad o con la pandemia, c’è da sempre. Certo la pandemia ha fatto da detonatore, ma è un’emergenza che non si vuole e non si voleva vedere. Perché fa paura e la classe politica per prima non se ne rende conto: le risorse che vengono messe a disposizione del sistema sanitario nazionale per questo problema sono ridicole. Le forme di protezione maggiori sono famiglia e scuola che devono far crescere i ragazzi sani e forti da un punto di vista mentale. La politica dovrebbe occuparsi di salute mentale dei minori aiutando i genitori a fare i genitori. Si parla sempre di famiglia, anche nelle manifestazioni di piazza, solo in termini di come dovrebbe essere composta, da un uomo o una donna o quant’altro, ma non si parla del vero nodo".

Quale?

"Il tempo. I genitori devono avere del tempo per stare con i figli. Se i genitori sono costretti a lavorare dalle 8 alle 20 i ragazzi con chi stanno? Stanno da soli. E questo è devastante. Fare una politica per la famiglia vuol dire che si lavora fino alle 5 del pomeriggio come in Inghilterra e negli Stati Uniti, alle 17 si va a casa e si sta coi figli. E fino alle 17, asili nido che ci sono, perché gli asili nido in Italia non ci sono. Poi le scuole: belle, non fatiscenti, con insegnanti valorizzati nel loro lavoro che è un ruolo sociale, non è solo fare un programma didattico ma è formare cittadini: dunque vanno pagati, non mortificati".

Un’altra cura è (anche) tornare alla natura?

"Oltre alla terapia farmacologica, quando necessaria, e a quella psicologica, per ricostruire la personalità dei ragazzi bisogna offrire occasioni di socialità in mezzo ai pari in un contesto non giudicante, come camminare all’aria aperta, fare escursioni. Occasioni di relazione che passano da canali anche inconsueti: non dalla prestazione scolastica o dal come si è vestiti, dal come si appare. In montagna, sulla strada, siamo nudi. Siamo quello che siamo realmente, senza sovrastrutture".

Il bullismo è l’altra faccia del disagio?

"Sì. Noi ragioniamo molto sulle vittime ma dovremmo ragionare anche sui carnefici: com’è che un ragazzo arriva a questo? Una delle ipotesi è che i ragazzi-carnefici facciano fatica a riconoscere le emozioni di paura, a dare il giusto valore della responsabilità dei propri gesti. Spesso i bambini non vengono educati al fatto che di fronte a una loro azione c’è una conseguenza, un prezzo che va pagato. Vengono assolti di default, e questo è un elemento particolarmente critico".

Una volta si diceva: è un bambino timido, vabbè, passerà. Meglio prima, meglio adesso?

"Né prima né adesso. I disturbi mentali ci sono da sempre. Certo, sono aumentati nettamente e quindi forse era meglio prima, però sono aumentati anche perché i nostri stili di vita sono cambiati profondamente. Quando io sono cresciuto negli anni ‘60 a casa mia c’era sempre qualcuno, in quel caso mamma. Ora noi abbiamo giustamente – giustamente eh, non sto rimpiangendo quel modello – rivoluzionato il ruolo delle donne nella società ma sottovalutando il fatto che le donne facevano un lavoro preziosissimo che non fa più nessuno. Quindi o noi creiamo dei contesti e delle strutture sociali – la scuola, gli asili nido – che sono di supporto a questa nuova organizzazione oppure lì c’è un buco, un vuoto. E i ragazzi tornano a casa e non trovano nessuno. E sono soli".