di Chiara
Di Clemente
"C’è una nostalgia anche dell’infelicità", scrive Walter Siti nel romanzo Bontà in cui racconta la discesa agli inferi della vecchiaia di un brillante e cinico editore, Ugo, che combatte con i vuoti di memoria e lo svanire delle possibilità di un futuro. "Il corpo comanda. Il corpo decrepito è l’unica misura": questo è il sentimento che ha di sé Ugo, sentimento “finale“ da portare a compimento realizzando un "poema d’azione" (trovare un amante che lo uccida), per riscattarsi da tutti quei "dolori atroci" che si porta dentro: "Non è necessario morire per essere liberi dalla vita: sono necessari dei dolori atroci, quelli sì".
In un artista, in un musicista – Keith Jarrett con gli ictus che gli impediscono di suonare il piano, Eric Clapton e la paura della paralisi post vaccino alle “slow hands“ – il dolore atroce della decadenza del corpo è doppio: la sofferenza fisica alimenta quella dell’incapacità di esercitare la propria arte, spesso il proprio senso di esistere. Le foto del batterista e fondatore dei Genesis Phil Collins diffuse ieri dopo l’apparizione di giovedì mattina in un programma della Bbc hanno – da sole – messo in allarme i fan. Le sue parole hanno fatto ancora più tristezza: Collins, 70 anni, ha annunciato che il prossimo tour americano della reunion dei Genesis sarà per lui l’ultimo, e che si ritirerà. "Sai – ha svelato a chi lo intervistava –, riesco a malapena a tenere una bacchetta con questa mano. Quindi sì, ci sono alcune cose fisiche che mi danno fastidio. Si potrebbe dire che sono un po’ disabile. Il che è molto frustrante perché mi piacerebbe poter suonare con mio figlio". È il figlio ventenne Nicolas, infatti, che nel prossimo tour – come accade da tempo – prenderà il suo posto alla batteria, mentre Phil canterà, seduto.
Chiudi gli occhi e il ricordo vola al 2007, concerto al Circo Massimo, mezzo milione di persone, e i tre Genesis Collins Rutheford e Banks – convitato di pietra il fantasma di Peter Gabriel – a incarnare le tante anime della band, dai lussuosi kolossal pop agli affreschi anni ’70 dell’inconscio di un rock che allargava strumentazioni e percezioni, flirtava con le sinfonie e si traduceva in capolavori visionari (il gran finale a Roma fu The Lamb Lies Down On Broadway, ’74). Mentre il piccolo uomo dall’energia incontenibile Phil duellava alla batteria con Chester Thompson nelle rullate infinite e sfacciate di Afterglow. Solo due anni dopo Collins sarebbe stato operato la prima volta alla vertebra cervicale: sono seguiti altri interventi (alla schiena, alla gamba), difficoltà di deambulazione, insensibilità alle mani, "dolori atroci" che vanno ad aggiungersi al malanno-incubo di ogni batterista, la perdita dell’udito, e che lo portano al primo annuncio di addio alle scene.
Si smentisce però nel 2016 con tour da solista (sul palco seduto, e in piedi con un bastone) e la pubblicazione dell’autobiografia No, non sono ancora morto, in cui svela che il grande talento precoce (non sapeva ancora camminare ma suonava già i tamburi) non ha mai placato le grandissime insicurezze. Multimilionario, dischi stravenduti, concerti immensi, nome leggendario, dubita perennemente di essere in realtà un fallito. È il bisogno di guarire dall’insicurezza il fuoco che accende l’energia sfrenata in scena quando è al massimo della forma fisica, è forse lo stesso bisogno che ora gli impedisce di ritirarsi e gli impone di “condannarsi“ – in scena – a soffrire. Perché sì, invecchiando può esistere anche la nostalgia dell’infelicità.