Matteo
Massi
Non hai mai pensato a un tatuaggetto? Lo cantava Elio con le sue Storie Tese in una canzone che oggi sarebbe immediatamente censurata, in pieno politicamente corretto, se non altro per il titolo: La follia della donna. Ma Elio, come spesso gli succede, inquadrava il punto della questione: il tatuaggetto è diventato un accessorio. Come un qualsiasi altro accessorio: una sciarpa o un cappello. E la rincorsa all’accessorio, di cui sopra, è diventata folle. Senza distinzione di genere. Corpi tatuati come se fossero dei Maori (ma senza la sacralità tribale: il tatuaggio in Nuova Zelanda è tesoro nazionale) e dubbi e incertezze che affiorano sempre più spesso su quell’incisione sul corpo, appena fatta: perché il per sempre, di questi tempi, non esiste più nemmeno per i diamanti. Ora l’Europa ci dice che i tatuaggi colorati fanno male e quindi dall’inizio del 2022 niente più tatuaggi colorati. Ma non finirà la corsa a tatuarsi il corpo.
Ma se il tatuaggio non è eterno e ha perso quella sacralità, che senso ha in questo tempo ove è diventato accessorio e quindi orpello? È un puro atto di consumo ma anche di libertà, come qualsiasi scelta che viene fatta nel modo di archiviare i propri ricordi: magari su una nuvola digitale, piuttosto che su un album fotografico. E qui entro nell’autoreferenzialità: ho tatuato sulla spalla il simbolo degli Einstürzende Neubauten (gruppo musicale tedesco), un disegno precolombiano che raffigura l’uomo. Questo per dire che esiste anche un umanesimo (carnale) dei tatuaggi.