Domenica 1 Settembre 2024
BEPPE BONI
Cronaca

"Ho vissuto tre anni da finto mafioso per fermare armi e droga"

Il sottufficiale infiltrato, nome in codice Giorgio: un anno per farsi accettare dal contesto criminale "Mi fecero nuotare in mare per essere sicuri che non avessi microfoni"

I carabinieri del Ros

I carabinieri del Ros

L’appuntamento è in un hotel del Nord Italia. Lui ha 40 anni, è un sottufficiale dei carabinieri, nome in codice Giorgio. Ha preso parte come agente infiltrato ad una indagine ad alto rischio contro i narcos sudamericani e le cosche calabresi.

Per quanto tempo ha ricoperto il ruolo dell’infiltrato nell’Operazione Eureka (108 arresti)?

"Eureka ha visto impiegati i carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo di Locri da maggio 2019 a maggio 2023 fino all’esecuzione dei provvedimenti di custodia emessi dalla magistratura. Il mio periodo sotto copertura è durato circa 3 anni, a fasi alterne in Italia e all’estero, dall’estate 2019 alla primavera del 2022".

È vero che ha agito in tandem con un poliziotto belga?

"Sì, in sinergia con un agente infiltrato della polizia federale. La legge italiana prevede che un undercover straniero possa operare in Italia come interposta persona con un italiano".

Qual è stato il suo ruolo?

"Di facilitatore, capace di coordinare operazioni di money-transfert di somme milionarie dei narcos proventi delle ‘ndrine calabresi".

Racconti un episodio.

"Potrei raccontarne tanti che per ragioni di sicurezza è meglio tenere riservati. Ne riferiscono uno. In una occasione per poter parlare liberamente, i personaggi coinvolti ci hanno portati a fare una nuotata in mare e, solo giunti a distanza dalla riva, avuta la certezza che non avessimo indosso strumentazioni tecniche, hanno intavolato il discorso che volevano affrontare".

Quanto tempo c’è voluto per entrare nel giro criminale?

"Per me circa un anno. L’infiltrazione sotto copertura è la fase più complessa. L’ingresso di un estraneo in un contesto criminale già operativo è delicato. Il collega belga ha curato la fase di infiltrazione all’estero frequentando gli stessi locali dei personaggi che volevamo avvicinare, cercando di divenire una presenza familiare in modo da essere avvicinato poi da loro".

Come avviene la preparazione di un undercover?

"Attraverso selezioni psico attitudinali e corsi mirati di formazione ed aggiornamento periodico per consentire agli operatori di sviluppare situazioni utili nei contesti in cui possono essere coinvolti. È necessario avere una solida base morale e caratteriale. Non è facile fare il poliziotto in mezzo ai criminali".

Ha visto movimentare i milioni dei clan calabresi?

"Ho visto passare sotto i miei occhi valigie piene di denaro contante, fino a un milione per volta. Il mondo del narcotraffico internazionale, come quello ricostruito in Eureka, si basa su movimentazioni di enormi somme di denaro necessarie per finanziare le importazioni, garantire l’uscita dello stupefacente dai porti di arrivo e consentirne la vendita al dettaglio".

È vero che le cosche calabresi avevano contatti anche con i paramilitari colombiani?

"L’indagine ha svelato rapporti tra le ‘ndrine della zona jonico- reggina ed esponenti dei principali cartelli paramilitari colombiani, in primis con il Clan del Golfo, con i quali sono state documentate importazioni verso i porti europei di molti carichi di cocaina, con sequestri di tonnellate di droga. È stato documentato un giro di affari milionario".

Traffici di armi?

"L’indagine ha svelato pure traffici di armi dal Pakistan verso il cartello criminale brasiliano Primero comando de capital".

Come memorizzava le informazioni acquisite in segreto?

"L’undercover deve relazionare tutto alla propria scala gerarchica in modo da aggiornare i magistrati che guidano l’inchiesta. Compito difficile. Le informazioni vanno memorizzate nei minimi dettagli e riferite per iscritto alla prima occasione utile".

Le caratteristiche psicologiche di un infiltrato?

"Lucidità, freddezza e rigore morale sono indispensabili. Non è raro trovarsi in situazioni difficili in cui una mossa sbagliata può rischiare di compromettere l’esito dell’indagine e farti rischiare la vita. Se sbagli una mossa sei morto".

Le cosche per fidarsi l’hanno messa alla prova?

"Parlare di fiducia è errato. Una organizzazione basata su vincoli di sangue come la ‘ndrangheta difficilmente si fida di un estraneo. In quel momento potevamo offrire un servizio che a loro tornava utile e quindi il vincolo era più utilitaristico che fiduciario".

Paura di essere scoperto?

"La paura fa parte del gioco e ritengo sia un fattore importante in grado di dare il senso della misura delle azioni che si compiono. Imparare a convivere con la paura e gestirla in maniera positiva è uno degli aspetti dell’attività di formazione".

Ha avuto contatti con la sua famiglia nel periodo dell’operazione?

"I contatti con i propri cari sono estremamente limitati per ovvie ragioni di sicurezza. I colleghi e i miei superiori che seguivano la mia attività hanno mantenuto rapporti costanti con la mia famiglia, anche assistendola in caso servisse. È stato un sacrificio necessario per il buon esito dell’attività e per garantire la mia e la loro incolumità".

Cosa spinge un carabiniere ad entrare in una operazione così rischiosa?

"Il rischio è un elemento quotidiano del carabiniere, qualunque sia l’attività svolta. Il nostro giuramento di fedeltà ci impegna a servire la Patria e i cittadini. Siamo convinti della nostra missione".