
Nel tondo: Michele Colajanni, professore di Cybersecurity presso il Dipartimento di Informatica, Scienza e Ingegneria dell’Università di Bologna
Modena, 19 gennaio 2025 – Piccoli hacker crescono. È di questa mattina la notizia di un ragazzo che, a soli 15 anni, dalla sua cameretta a Cesena, si divertiva a cambiare i voti delle pagelle elettroniche ed era arrivato persino a modificare le rotte di alcune imbarcazioni, in particolare petroliere, in navigazione nel Mediterraneo. Il tutto, come se fosse un gioco.
Sul tema, interviene Michele Colajanni, professore di Cybersecurity presso il Dipartimento di Informatica, Scienza e Ingegneria dell’Università di Bologna, analizzando diversi temi tra cui la vulnerabilità dei sistemi informatici, la possibilità di intervento dei genitori e il futuro di un settore in costante evoluzione.
Cos’ha pensato quando ha letto la notizia del giovane hacker di Cesena?
"A mio avviso, questa vicenda evidenzia una problematica cruciale: troppo spesso, infatti, sistemi informatici che dovrebbero essere a prova d’intrusione si rivelano incredibilmente vulnerabili. Nello specifico, sarebbe necessario comprendere se siano stati violati dei sistemi o degli account. In ogni caso, mentre il ragazzo si è limitato a cogliere un’opportunità, forse dimostrando un’abilità fuori dal comune, questo episodio suona come un campanello d’allarme molto serio in materia di sicurezza informatica”.
Quali sono gli strumenti in possesso delle famiglie per prevenire questi fenomeni?
"Purtroppo, nella maggior parte dei casi, i genitori non hanno alcuna speranza di controllare in toto l’operato di un figlio. Personalmente, non ripongo molta fiducia nelle capacità tecniche dei genitori, ma sono convinto che le famiglie possano lavorare preventivamente puntando sull’educazione, sul dialogo con i figli e sulla trasmissione di principi e valori”.

Parliamo di ‘hacker buoni’: ci sono tanti ragazzi che oggi scelgono di occuparsi di cybersecurity?
"Oggi, i percorsi formativi non mancano, ma spesso manca il materiale umano. Servono sempre più giovani motivati e disposti a investire passione e impegno in un’attività che richiede tanto tempo e uno studio costante. Tuttavia, a livello lavorativo, parliamo di un settore che premia: basti pensare che oggi nel mondo si stimano circa 3,5 milioni di posti di lavoro disponibili”.
Che qualità servono in questo settore? Quali sono, invece, le difficoltà principali?
"Per lavorare nella sicurezza informatica servono passione, determinazione, curiosità, logica, resilienza, e soprattutto, tantissima pratica. Le difficoltà principali risiedono nelle complessità del lavoro da affrontare e nel fatto che si rimanga ‘studenti a vita’, in costante aggiornamento”.
I ragazzi italiani come se la cavano?
"I nostri ragazzi se la cavano molto bene e sono particolarmente brillanti. Nel mondo dell’hacking si richiedono abilità molto vicine alla sensibilità italiana. La capacità di risolvere problemi in modo artigianale, di non arrendersi al primo ostacolo e trovare soluzioni creative anche quando non si rispettano tutte le regole in maniera pedissequa sono caratteristiche che, a mio avviso, rendono gli italiani particolarmente abili in questo campo. Tuttavia, è fondamentale che famiglie e scuole sappiano orientare queste capacità verso il bene, incanalandole in percorsi costruttivi e positivi”.
Quali sono, a suo avviso, le sfide più importanti per il futuro della cybersecurity in Italia?
"La principale sfida per il futuro di questo settore in Italia è ampliare la visione oltre l’aspetto tecnologico. In primo luogo, occorre dare più attenzione alla componente umana: non sono vulnerabili solo i sistemi, ma anche le persone, e spesso gli attacchi passano proprio da loro. Inoltre, è fondamentale un’evoluzione a livello di management e governance: occorre comprendere che la sicurezza informatica è una priorità strategica che, in un’azienda, non può essere delegata ai soli tecnici, ma richiede una gestione consapevole e integrata”.