Cacciari e il Covid: ora torniamo a vivere. "La paura uccide, chi fugge è un disertore"

Il filosofo punta il dito contro la politica: "Alimenta il terrore". E sferza anche i colleghi professori: "Tornare a scuola è un dovere"

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"Il termine paura deriva da ’phobos’ e da qui le fobie. Ma ha la stessa radice di ’feugo’, che vuol dire fuggire. Ma se la paura ci fa fuggire, è un disastro, una pre-morte". Massimo Cacciari, da filosofo di rango, la prende da lontano, ma arriva molto diretto e molto vicino a noi. "Bisogna tornare a lavoro, bisogna tornare a scuola e nelle università. Ogni assenza, per il terrore del virus, sarebbe una diserzione intollerabile. Non possiamo permetterci un altro lockdown. Sarebbe una catasfrofe".

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"La paura è qualcosa di ragionevole, perché siamo in presenza di un’epidemia che non è passata e per la quale non abbiamo strumenti efficaci per combatterla. Ma la paura non può e non deve trasformarsi in fuga. Dobbiamo capire che, superata una fase di estrema emergenza che poteva anche consigliare il chiudersi in casa, questa non può essere una situazione che si ripete perché altrimenti non si trasforma neanche in fuga ma in morte. In auto-sepoltura".

Dunque, nessuna paura e nessun alibi per non tornare a scuola o in ufficio.

"Con una paura che non è fuga, ma attenzione, precauzione, intelligenza. Consapevolezza dei propri limiti. Ma bisogna tornare a scuola perché non si fa scuola a distanza, perché la scuola è comunicazione, è comunità. In tutti i settori privati si è tornati a lavorare: e quelli che lo hanno fatto non sono suicidi, come non sono assassini i datori di lavoro. Non è possibile, per esempio, che a Milano su 30mila dipendenti del comune ve ne siano solo tremila in ufficio. Questo significa non fare gli atti e chi paga per questo sono sempre i cittadini più deboli economicamente e culturalmente".

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Ma non è che noi italiani abbiamo, più di altri, paura della morte anche per ragioni che affondano nel nostro retroterra storico-culturale?

"Può darsi che questo aspetto abbia un ruolo. Popoli europei con un’etica protestante hanno una cultura più dura del lavoro inteso come missione che va affrontato anche correndo rischi e pericoli. Noi, se possiamo, tendiamo a evitarci missione e pericoli. Anche l’etica della morte è differente. Noi ci affidiamo di più alla grazia del Signore. Però queste differenze tendono anche a scomparire e rimangono le grandi differenze tra sistemi politici e sistemi di servizi pubblici".

Si riferisce a come la politica ha gestito l’emergenza e a come affronta l’autunno?

"Certo. Bisogna che ci sia una politica che non enfatizzi la paura e che, anzi, agisca all’opposto e si muova per trasformare la paura in intelligente precauzione. Il messaggio, per esempio, non può essere quello quotidiano del bollettino dei contagiati e dei morti a prescindere: senza che si spieghi se i contagiati sono asintomatici e se i morti sono collegati a questa fase o vengono da contagi della fase precedente. Bisogna distinguere e razionalizzare: questo deve fare la politica. Ma non lo ha mai fatto: pensiamo all’immigrazione".

La politica, dunque, ha favorito le nostre paure invece di razionalizzarle?

"Sicuramente. Il nostro sistema politico ha dato ampiamente prova di non avere in mano strumenti di prevenzione effettiva rispetto a emergenze come la pandemia: si pensi solo agli scontri tra potere centrale e Regioni. E questo ha fatto aumentare le paure e la percezione del pericolo. Se avessimo avuto tre o quattro volte i centri di rianimazione che avevamo la percezione della paura sarebbe stata differente. Oggi, però, il messaggio dovrebbe essere: sappiate che, rispetto a febbraio e marzo, la situazione è cambiata ed è sotto controllo. E invece siamo massacrati da annunci anche esteticamente deliranti: come sui treni, quando ci dicono di cambiare la mascherina ogni quattro ore. Pensi che per dire queste cose qualcuno mi ha accusato di negazionismo".

Addirittura?

"Sì, ma quale negazionista del… Dico solo che sono infinite le cose nella vita che ci fanno paura, ma vanno affrontate, con i rischi connessi al vivere, per evitare che la vita si trasformi in una fuga. Nel nostro caso, insisto sui messaggi: devono servire a razionalizzare i pericoli, non ad alimentarli, perché non possiamo permetterci nuovi lockdown: sarebbe una catastrofe economica e sociale quando non abbiamo neppure contezza dei danni di quella che abbiamo vissuto".

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