Il mio amore attraverserà il ponte di Brooklyn (Prima o poi)

Il mio amore attraverserà il ponte di Brooklyn. Prima o poi. Così pensava Geoffrey Sand, l’Irlandese Maledetto, ferito dalle schegge di un sogno americano finito a pezzi. Se ne stava disteso come al solito sotto l’ultima arcata. Da lì la visuale era ottima. E non provassero a farlo sloggiare, se ci tenevano ai denti. Un […]

Il mio amore attraverserà il ponte di Brooklyn. Prima o poi.

Così pensava Geoffrey Sand, l’Irlandese Maledetto, ferito dalle schegge di un sogno americano finito a pezzi. Se ne stava disteso come al solito sotto l’ultima arcata. Da lì la visuale era ottima. E non provassero a farlo sloggiare, se ci tenevano ai denti. Un tempo sapeva fare a cazzotti. Non se la cavava male. Quasi come con le obbligazioni, ordinarie e non.

Un tempo Geoffrey Sand lavorava a Wall Street. Giusto al di là del ponte di Brooklyn. Dove tutti quei cinesi arrivavano con la macchina fotografica, il cappellino e una ventiquattrore piena di dollari, e toccavano le palle al Toro di bronzo da tre tonnellate in mezzo alla piazza di Bowling Green. Gesto scaramantico, poco orientale, ma benaugurante. Lui le palle se le era giocate da tempo, non lontano dal Toro, mascotte dei broker: seppellito vivo da tre tonnellate di sfiga. Vero che certe volte gli affari possono andare storto, ma Geoffrey Sand ebbe l’impressione di trovarsi infilzato da un cavaturaccioli. Faceva il broker. Ma il Toro lo aveva incornato. Anche per questo lo chiamavano l’Irlandese Maledetto. Un secolo prima i suoi antenati avevano sfidato l’Atlantico: venivano da Dublino. Lui ci sarebbe tornato anche domani, se ora avesse avuto più di mezzo dollaro in tasca. I suoi avi gli avevano insegnato la durezza e la resistenza nel mare in bufera. Lui non avrebbe mai immaginato che a Wall Street certe tempeste sono più pericolose che nell’Atlantico.

Steso sotto l’ultima arcata del ponte di Brooklyn, lo sguardo che navigava oltre l’East River, Geoffrey Sand completò mentalmente la frase liturgica preferita:

Il mio amore attraverserà il ponte di Brooklyn. Prima o poi. E io sarò lì ad aspettarla.

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Lei era di Manhattan. Aveva un appartamento al diciottesimo piano all’angolo fra la 42esima e la Seconda Avenue, a Tudor City, il quartiere raffinato sotto il Palazzo delle Nazioni Unite. Non le mancava nulla, nemmeno la noia. Emily Young era ricca e pur possedendo un bel posticino a Tudor City passava tutto il suo tempo più giù, tra Little Italy, Soho e il Greenwich Village. Prendeva l’aperitivo al “Carroll Place” in Bleecker Street, cenava da “Marcella’s” in West Houston, andava ad ascoltare musica al “Cafè Wha?” in Mcdougal Street, dove perfino Bob Dylan e Jimi Hendrix un giorno si stufarono di andare. Emily era bella e anche questo l’annoiava. In troppi le facevano la corte. Una sera che era più stufa del solito decise di scendere ancora più a sud, verso la punta finale di Manhattan. E fu qui che incontrò Geoffrey Sand, proprio a Wall Street e più precisamente – visto che il destino non scommette in Borsa, ma vince comunque – non lontano dal celebre Toro.

Non era una serata come le altre per Geoffrey. Sottobraccio teneva uno scatolone.

Cos’hai lì dentro?”, gli chiese lei senza tanti riguardi.

La mia vita”, rispose lui senza cautele verso se stesso.

Sand, l’Irlandese Maledetto, era appena stato licenziato. Carriera di broker in pezzi. Anche questo le disse subito.

Lei pensò: Ecco una cosa nuova. E per un attimo sentì che la noia batteva in ritirata.

Si innamorarono così, quella sera stessa, per opposte esigenze. Lei intravvide una speranza. Lui era accecato dalla disperazione. Lei pensò di essere all’inizio di una nuova strada. Lui era ancora in fondo a quella vecchia.

Poi si baciarono e si incamminarono stretti l’uno all’altra verso est e quando furono davanti alla gigantesca creatura in granito e cavi d’acciaio che scavalcava quasi d’un balzo l’East River, Geoffrey Sand fu forse troppo precipitoso nel prospettarle un cambio di vita e indirizzo. Fatto sta che Emily Young, fu irremovibile nel reagire:

Non attraverserò mai il ponte di Brooklyn”.

Disse proprio così. Lei era bella e ricca, ma ora – senza più la noia a farle compagnia – aveva paura.

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Disteso sotto l’ultima arcata del suo ponte preferito, Geoffrey Sand fissava Manhattan, al di là dell’East River, e ripensava a quella sera e a tutte le altre che seguirono, senza più Emily accanto. Era andata perfino peggio di quanto avrebbe scommesso. Lasciata Wall Street, una sistemazione nuova l’aveva trovata, ma non era proprio sicuro che la si potesse chiamare così. L’Irlandese aveva cambiato patria, come avrebbero detto i suoi avi: ora era un cittadino di Dumbo.

Era passata un’eternità da quando aveva fatto il grande passo. Ma ricordava bene: una volta raggiunta l’altra sponda, del Ponte e della propria esistenza, si era fermato a fissare perplesso quel cartello, tradotto in tutte le lingue, a beneficio dei turisti:

                                 WELCOME TO D.U.M.B.O.

                Down Under the Manhattan Bridge Overpass

Poi Geoffrey Sand aveva deciso d’istinto: la faccenda era ok per lui, avrebbe vissuto lì, nel quartiere “sotto il cavalcavia del Manhattan Bridge”, che si spingeva sul lato opposto fino al Brooklyn Bridge, sotto il quale si sarebbe sistemato. Era questa la cosa più importante: lui doveva vigilare. Il punto scelto era perfetto per tenere la situazione sotto controllo. Lei sarebbe arrivata da lì, attraverso il ponte di Brooklyn. Prima o poi. E lui sarebbe stato pronto ad accoglierla.

Ogni tanto Geoffrey pensava a se stesso più come a un cittadino di D.U.B.B.O., “Down under the Brooklyn Bridge Overpass”. E poi scoppiava a ridere. Questo succedeva quando Geoffrey Sand, l’irlandese maledetto anche da se stesso, beveva più del solito. Teneva sempre a portata di mano una bottiglia di Tullamore D.E.W., vero whiskey irlandese. Alla salute dei suoi avi.

In quel quartiere (comunque lo si volesse chiamare) con strade di ciottoli, edifici in mattoni rossi di ex zuccherifici, magazzini e vecchie fonderie di ferro e ottone che ora ospitavano loft alla moda e atelier di scultura o pittura, e insomma tutta roba snob che in fondo a Emily sarebbe piaciuta, Geoffrey Sand era un clandestino. Perché, ora, Geoffrey Sand era solo un barbone. E ai suoi antenati questo non sarebbe piaciuto neanche un po’.

E poi c’era quell’altra storia: il tizio che lui aveva preso a pugni una certa sera e, certo, lui a cazzotti se l’era sempre cavata. E il tizio non ne era uscito bene. Ma d’altra parte, pensava Geoffrey, se lo meritava.

Aspetti qui da anni una tipa che hai visto solo una sera e ora speri che attraversi quel maledetto ponte e corra da te e urli ‘Tesoro, dov’eri finito?’ e ti giuri ‘Ti amerò per tutta la vita’? Amico, sei completamente pazzo”.

Così gli aveva detto quel tizio.

E Geoffrey lo aveva steso.

Solo che c’era un problema: quel tizio non era un tizio qualunque. Ma era amico di certi italiani che si erano comprati mezza Dumbo (o Dubbo, se vi piace di più) e che ora stavano riempiendo il quartiere di pizzerie e negozi di cravatte.

Te la faremo pagare”, aveva detto il tizio, rialzandosi da terra, quella sera.

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Geoffrey Sand montava di guardia come al solito sotto l’ultima arcata del ponte di Brooklyn, lo sguardo fisso sul suo passato a Wall Street e il suo futuro chissà dove. La testa appoggiata sullo scatolone sbrindellato con il quale era uscito per sempre dal suo ufficio e che ora gli serviva da guanciale, l’Irlandese stava in allerta.

Sentì subito lo scalpiccio provenire dalla sua destra, dal ponte di Manhattan. Ma non poté capire all’istante di cosa si trattasse. Non ne ebbe il tempo. Gli furono addosso in un lampo. Avevano mazze da baseball e facce di legno.

Chi siete?”, chiese stupidamente.

La risposta gli arrivò sul mento, forte e chiara come una bastonata. E lo era. Altre seguirono. Molte altre. Geoffrey sapeva fare a cazzotti, ma questa era un’altra storia. Uno della banda lo colpì con la mazza alla mano destra.

Questo per l’altra volta”, disse.

Poi gli sferrò un colpo alla sinistra.

E questo perché non ci sarà più un’altra volta”.

Lo riconobbe: era quel tizio, proprio lui. Poi colpirono tutti assieme, mentre Geoffrey Sand, l’ex broker, il barbone, l’Irlandese Maledetto, cercava di ripararsi dal peggio con le mani rotte e lo scatolone marcio. Qualcuno mandò in frantumi, con un calcio, anche la bottiglia di Tullamore. Alla fine se ne andarono. Uno, in mezzo a loro, fischiettava.

Fu proprio quella sera che lei arrivò, come arrivano i sogni, senza avvisare. Geoffrey Sand non seppe mai dire quanto tempo fosse rimasto svenuto dopo il pestaggio. Ma ancora oggi racconta, a chiunque riesca a fermare per strada, quanto grande fu la sua sorpresa nel riaprire gli occhi. E nel vederla attraversare il ponte di Brooklyn.

Emily Young era bellissima e avanzava verso di lui come al rallentatore, come nella scena finale di un film, come un desiderio sopravvissuto a tutte le delusioni del mondo. Emily si avvicinava lentamente. Geoffrey a fatica si rialzò da terra. Scacciò il dolore importuno delle fitte alla schiena. Si stropicciò gli occhi pestati. Con due manate all’impermeabile lercio tentò di rimuovere la polvere e la vergogna. Cercò di immaginarsi presentabile.

Alla fine lei gli fu davanti. Lo fissò a lungo con un interrogativo negli occhi. Lui volle rassicurarla e disse solo: “Ti stavo aspettando”.

                                            Gianluigi Schiavon 

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