La vera storia di Ginger, la mummia di Londra

Salve, mi chiamo Ginger e abito al British Museum. In realtà Ginger è solo il mio soprannome. Ma d’altra parte, come mi chiamo davvero, proprio non me lo ricordo. Capirete, sono passati 5.500 anni. Sono arrivato a Londra nel 1900. Dopo Cristo. D.C., come dite voi, mortali d’oggigiorno. Comunque poco più che un secolo fa: […]

Salve, mi chiamo Ginger e abito al British Museum. In realtà Ginger è solo il mio soprannome. Ma d’altra parte, come mi chiamo davvero, proprio non me lo ricordo. Capirete, sono passati 5.500 anni.

Sono arrivato a Londra nel 1900. Dopo Cristo. D.C., come dite voi, mortali d’oggigiorno. Comunque poco più che un secolo fa: un’inezia, rispetto alla mia età. E ora non mi guardate così, smettetela subito, un po’ di rispetto: non è colpa mia se sono una mummia. Ebbene sì: ladies & gentlemen, ecco a voi Ginger, la mummia più famosa di Londra. In scena dal 1901, per servirvi: ho avuto successo subito, non faccio per vantarmi. Alla prima esibizione ero già una star.

C’è un’altra cosa che non ricordo per niente: chi si sia inventato per me questo soprannome. Il perché sì, non potrei scordarlo: è per via dei capelli rossi, simili a quelli di una famosa attrice dei vostri tempi, sì, i capelli che ancora porto in testa, anche se spettinati, non posso negarlo. Ma non è colpa mia se, con tutte le cianfrusaglie che mi hanno messo intorno tanto per far scenografia, un pettine, no, quello non hanno avuto la gentilezza di portarmelo.

Mi hanno trovato alla fine del XIX secolo (D.C., naturalmente) nel deserto di Gebelein, Alto Egitto, 30 chilometri da Luxor. Sotto la sabbia rovente, che mi ha conservato come mamma mi ha fatto, o quasi. Non è per darmi delle arie, ma in effetti sono quella che oggi chiamereste una mummia naturale. Niente pozioni, unguenti, medicamenti, neppure oli, essenze, profumi o balsami o pomate: nulla di tutto questo è alla base del mio ostinato esistere.

Come direste voi mortali del D.C.: sono una bio-mummia. Ladies & gentlemen, ecco a voi Ginger, meglio una morte naturale che una vita artificiale.

Per Anubi, dio dei defunti, nessun chirurgo estetico ha mai inciso la mia carne, nessun sacerdote del bisturi e del succhiello mai ha profanato il mio corpo, nessun medico tardivo ispezionato le mie viscere, estratto ed esposto i miei organi, essiccato anzitempo la mia anima (non so se si chiamasse così anche ai miei tempi, forse è una parola che ho imparato più tardi, sì, Dopo Cristo, lo ammetto). Eppure, anche quando ero giovane, i professionisti della mummificazione stavano già diventando di moda. Beh, non ne ho avuto bisogno. Non faccio per vantarmi.

Ma voglio svelarvi un segreto: non è andata come molti credono, come tanti suppongono, anche tra lorsignori professori del British. Scusate se parlo sottovoce, ma non mi fido: anche i sarcofagi, in questo posto, hanno le orecchie. Senza offesa, non sto parlando della dea Bastet, raffigurata in foggia di gatto su tutte le tombe. Non mi permetterei.

Dunque, avvicinatevi piano piano, fate poco rumore e ascoltate. Nel 3500 A.C., posso sbagliarmi di un paio di secoli, non di più, mi sono addormentato – ricordo come fosse ieri – nel deserto di Gebelein. E non mi sono più svegliato. Ci fu questa grande tempesta di sabbia. Una roba mai vista, la madre di tutte le tempeste, per Seth, dio delle bufere e del disordine. Ma io, io ero troppo stanco per reagire, troppo a lungo avevo camminato fra le dune. E così lasciai fare ai venti. E fu così che la sabbia mi ricoprì. E fu in queste fortunose circostanze che mi ritrovai nascosto agli occhi dei viventi, Voi direste: seppellito. Va bene, non fa niente, non mi offendo, il risultato non cambia: è in effetti per questo che ora sono una mummia.

Comunque sia, questa è la mia vera storia. Ma non andate in giro a raccontarla: gli archeologi non l’hanno ancora scoperta. E tutto sommato è meglio così, certe cose preferisco tenerle per me. Cosa dite? Che ci facevo in mezzo al deserto? Hoo beh, noo, niente di speciale, cosa vi viene in mente, noo… Certo che siete curiosi!

Ebbene sì, l’avete vinta voi: insomma, cercavo la bella Merensakh… Sì, sì,va bene, per Hathor, dea della gioia e dell’amore, è proprio come pensate: lei fuggiva da me. Ma questa è un’altra storia. Altro non vi dirò. Muto come una mummia. 

.. (silenzio di tomba al British Museum. Ma dura poco)

.. Hey, ladies and gentlemen, siete ancora lì? Ok – come si dice a Londra – the show must go on. Vi racconto il resto, tanto, ormai, tutti oggi parlano di me, con la scusa che sono famoso. Tutti si interessano di me, anche troppo.

Dovete sapere che stavo bene sotto la sabbia del deserto di Gebelein, rannicchiato sul fianco sinistro in posizione fetale (si dice così, tra i medici moderni?), le braccia un po’ in avanti, un avambraccio sotto, l’altro appoggiato sopra, le mani davanti alla faccia, perché quando mi sono addormentato c’erano le stelle e se credete che le stelle sopra un deserto facciano poca luce non sapete niente né di stelle, né di deserti. Le gambe, ora come allora, le tengo piegate verso lo sterno: è una posizione comoda, non avete idea quanto, ci sarà pure un motivo se le tengo così da più di 5.500 anni. In testa il mio ciuffo di capelli rossi, che in effetti non ho più bisogno di pettinare. Le unghie dei piedi sono ancora lì e nonostante tutto, a quel che posso scorgere da questa posizione, mi paiono ancora abbastanza pulite: in vita, sapete, ci tenevo. La schiena è dritta, la pelle abbronzata, il sole del deserto produce effetti di lunga durata. Quando il sonno ha avuto ragione dell’ostinazione nel cercare Merensakh, la mia testa era rivolta a sud, la faccia diretta a ovest, verso la terra dove i morti rinascono. Gli archeologi hanno detto che in quel posto, a Gebelein, c’era un cimitero. E che io c’ero dentro fino al collo: che ero proprio già lì, bello che tumulato. Balle! Ma se questo è vero, allora qualcuno mi ci deve aver trasportato. Mi pare inverosimile. Io volevo solo fare un sonnellino. In posizione fetale.

E’ così che mi hanno trovato, è così che sono finito al British Museum. Al terzo piano, room 64, sezione egizia, nel 1901. Devo dire che la mia nuova sistemazione non mi dispiaceva: teca spaziosa, tutta di vetro, con vista, cioè trasparente su ogni lato, sopra, sotto, destra, sinistra, in direzione di tutti i punti cardinali, non chiedetemi quali, oggi non so più orientarmi. Comunque, quella specie di enorme scatola di biscotti (qui vanno molto) mi proteggeva anche dal freddo, perché a Londra, lo sapete, il clima è un po’ diverso dal deserto di Gebelein. Quella teca mi preservava pure dal rumore: non avete idea di quanto possano disturbare quattromila visitatori al giorno. Che ti urlano nelle orecchie (ho conservato buona parte anche di quelle): “Guarda lì! Ecco Ginger!! Hey, Ginger, come te la passi? Ginger! Girati, che ti faccio una foto!!”.

Spiritosi. Non li ho mai sopportati. Comunque, c’è di peggio. E poi, in fondo, tutto ha una fine. Voglio dire, i musei hanno questo di bello: a una certa ora, tutti fuori. Orario visite terminato. Buio e silenzio. Actually, come dicono da queste parti, per un po’ è andata bene: un centinaio d’anni, forse qualcuno di più, sì d’accordo, un’inezia rispetto al mio prossimo compleanno. Tutto ok, comunque e nonostante tutto, finché ai miei padroni di casa non è venuta quell’idea.

Di cosa sto parlando? Non ci crederete mai: mi hanno portato in ospedale! Al Bupa Cromwell Hospital, per l’esattezza, cioè a Earls Court, vale a dire dall’altra parte della città. Dovevo fare una Tac. Un po’ tardi per un controllo medico, non vi pare?

Quando ci ripenso, mi cascano le braccia (faccio per dire, dopo tutto questo tempo potrebbe succedere davvero): insomma, la direzione del Museo, d’accordo con gli eredi dei soci fondatori, di concerto con la pubblica amministrazione, in sintonia con tutti gli dei, miei e loro, ha affidato a un pool di ricercatori la specifica missione di disturbare la mia quiete plurimillenaria. O, come dicono lorsignori esperti, di scoprire i segreti delle mie origini e soprattutto della mia persona. Insomma, la mia vera storia. Ora, sorvolando sull’evidente violazione di quella che gli inglesi chiamano privacy, cioè a dire sull’ostinata volontà del pool di farsi gli affari miei (gossip), ciò che più mi ha ferito è stato il metodo: per la regina Nefertite, c’era proprio bisogno di usare i raggi x? Dio salvi la regina (Nefertite), ma anche me stesso dai sistemi spionistici del XXI secolo!

Sono un uomo tutto d’un pezzo (cioè uno dei pochi arrivato integro ai giorni vostri) e vi assicuro che non è stato affatto piacevole sentirsi prendere di peso e caricare su un’ambulanza e poi via a tutta birra e sirene spiegate giù per Oxford Street, Regent Street, Piccadilly, Knightsbridge, Brompton Road, Cromwell Road, via via dritti come matti attraverso mezza Londra, per finire il viaggio dentro un tubo di ferro bianco in un ambulatorio disadorno ma con sulla porta la targhetta in ottone “Tomografia assiale computerizzata”.

Insomma, sono un ospite del British Museum, un po’ di rispetto, per Maat, dea dell’ordine e della giustizia. Ma quelli, niente, dritti per la loro strada. Raggi x a tutto spiano, da destra a sinistra, da sinistra a destra, sopra, sotto e in diagonale. “Per la scienza sarà una rivoluzione, un vero trauma!”, li ho sentiti dire. Se lo chiedevate a me vi davo la stessa risposta.

E tutto questo per scoprire cosa? Ora vi faccio l’elenco.

a) Sesso: sono (ero) un uomo. Lo dice la forma, radiografata, del mio bacino. Ne ero convinto anch’io.

b) Età al momento della morte, ricavata dall’analisi di ossa e denti: 18-21 anni. Ne avevo di più, ma non vi dirò mai quanti.

c) Altezza, grazie alla visualizzazione in 3D di femori e tibie: un metro e sessanta. C’è qualcosa da dire? Sì, ero più basso di Merensakh, ma non era questo il problema tra noi.

d) Stato: tracce ben conservate di organi interni. Ad esempio: polmoni, reni, fegato. E nella pancia mi hanno trovato anche resti di cibo. Ebbene sì, l’ultimo pasto mi è rimasto sullo stomaco. Non l’ho ancora digerito. Quello e altre cose.

e) Poi hanno anche scoperto, bontà loro, che ho ancora un cervello. Quasi quasi m’offendo. Cosa credevate? Ve l’ho detto che sono una mummia naturale. Mica mi sono fatto aspirare le meningi da certi imbalsamatori cialtroni, che prima ti spaccavano il setto nasale, poi ti infilavano dentro una spatola e, opplà, tutto risucchiato in un secondo: pensieri, ricordi, desideri e anche sogni. Nossignori, io al cervello ci tengo e anche ai sogni. Ma in questo momento non voglio pensare a Merensakh.

Insomma, mi hanno rivoltato come un calzino. E a quel punto credevo fosse finita. Ne avevo fin sopra i miei capelli rossi. Invece no, quanto ingenua può essere una mummia pur con tutti suoi anni sulle spalle! Lorsignori avevano riservato il colpo grosso, lo scoop, per il gran finale. Il fatto è – e lo dico piano perché la faccenda non mi piace affatto – insomma il fatto è che la Tac ha evidenziato una strana incrinatura sulla mia scapola sinistra.

Beh, direte voi, e allora? “Allora” lo dico io: ai miei tempi una cosa così non sarebbe mai successa, c’era gente più seria in giro. Non come questi esperti del pool del British, spioni tecnologici, che hanno convocato una conferenza stampa per annunciare al mondo i fatti miei, invece di restare muti come una tomba. Hanno detto ai giornalisti che quell’incrinatura era un chiaro indizio, che non c’erano dubbi, che la scoperta era sensazionale, che finalmente, dopo 5.500 anni, si poteva informare la comunità sulle cause della mia morte: secondo loro, Ginger, il sottoscritto, nel 3500 A.C, venne ucciso con una coltellata alle spalle, o meglio, più precisamente, alla scapola sinistra.

NON E’ VERO! Smentisco categoricamente. Queste sono menzogne, illazioni, roba da tabloid. E infatti tutti, dal Sun al Daily Mirror, da News of the World allo Star ci si sono buttati a pesce, con titoloni in prima: “Ginger assassinato”, “Ecco la vera storia di Ginger”, “Una coltellata a tradimento. E Ginger se ne andò”.

NON E’ VERO UN ACCIDENTE! Dovete credermi. Non è come sembra: quella sera di 5.500 anni fa, nel deserto di Gebelein, mentre cercavo Merensakh, mi sono fatto male cadendo. Per questo ho una scapola incrinata. Se potessi piangerei, ma gli occhi la Tac non li ha trovati.

VE LO GIURO: non c’è stato nessun assassino. Nessun agguato alle spalle. E quanto al tradimento, non chiamerei così quello di Merensakh con me. E poi questa è un’altra storia…

Mi è scappato, non lo volevo dire… Certo, suo marito non era d’accordo, certo era molto arrabbiato, con me e con lei, certo, quella sera poteva anche saltargli in testa di venire a cercarci tra le dune di Gebelein. Ma non lo fece, lo giuro e rigiuro. Lo ripeto: non è andata così. Non è vero che mi sono accorto che mi inseguiva e allora sono tornato indietro e l’ho affrontato e c’è stata una lotta e io per primo l’ho colpito al collo con la mia lama, ma lui si è alzato mentre io mi giravo e mi ha piantato il coltello sulla scapola sinistra, incrinandola, e io, che lo odiavo con tutte le mie forze, a quel punto ho cercato il suo cuore e lì l’ho pugnalato, per prendermi Merensakh, per averla solo io, e lui è caduto, con gli occhi sbarrati che mi fissavano ma senza più vita in corpo, laggiù tra le sabbie di Gebelein.

NO, NON E’ SUCCESSO QUESTO! Potrei aggiungere che la ferita alla scapola mi faceva male, che a un certo punto mi è girata la testa, e che poi non ricordo altro: solo sabbia, stelle e dolore finale. Ma questi sono affari miei: è il segreto della mia vita e della mia morte. Per Ammone, re di tutti gli dei, signore del mondo terreno e anche di quello celeste!

.. (silenzio improvviso, un lungo istante, il tempo di un ripensamento)….. 

Salve, sono Ginger e abito al British Museum, room 64. Da un po’ di tempo ho una nuova teca, più spaziosa e meglio esposta. Se possibile, sono diventato ancora più famoso. Ho di fianco un maxi-schermo che proietta le immagini scannerizzate in 3D della mia Tac. All’altro lato un pannello che riassume le ultime scoperte su di me: a) Sesso….b) Età…. c) Altezza….Già sapete tutto. Vedo arrivare un tizio con i pantaloncini corti da turista e un cappello impermeabile, probabilmente acquistato qui di fronte perché a Londra piove sempre. In mano ha una copia omaggio del Daily Star con il titolo in evidenza: “Ginger, assassinato senza un motivo”. Per quanto sforzi facciano i giornalisti, nessuno saprà mai la mia vera storia. Di fianco, nella room 65, c’è un’altra mummia, anche lei trovata a Gebelein. E’ di un uomo, venne accoltellato al cuore, pare fosse sposato con una certa Merensakh. Io non vi ho detto niente, ma se volete andate di là a dare un’occhiata. Vi aspetto qua, non mi muovo. Dove volete che vada, ormai sono un’istituzione del British Museum: Ginger, la mummia più famosa di Londra. Per servirvi.

                                                                                                                            Gianluigi Schiavon

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