L’esploratore in viaggio verso Nessun Posto

Il racconto “In nessun posto” farà parte de “Il giramondo”, raccolta di novelle di Gianluigi Schiavon, di prossima uscita per Giraldi Editore.  Ne pubblichiamo un estratto in anteprima. Gomiti appoggiati al davanzale il professor Jonathan Ventura, esploratore di fama sconfinata, scrutava orizzonti non più visibili. Affacciato, ma solo con la mente, su paesaggi perduti, aspettava il […]

 Il racconto “In nessun posto” farà parte de “Il giramondo”, raccolta di novelle di Gianluigi Schiavon, di prossima uscita per Giraldi Editore.  Ne pubblichiamo un estratto in anteprima.

Gomiti appoggiati al davanzale il professor Jonathan Ventura, esploratore di fama sconfinata, scrutava orizzonti non più visibili. Affacciato, ma solo con la mente, su paesaggi perduti, aspettava il momento giusto per ripartire. Ma ancora non poteva.  L’epidemia aveva bloccato le frontiere, sigillato le vie di fuga con il mastice più potente: la paura. Poi aveva ripreso l’avanzata giungendo sotto casa, spingendosi su per le scale, appollaiandosi sul pianerottolo. Le autorità avevano diffuso il dispaccio perentorio: vietato uscire. C’era solo un posto dove l’esploratore Jonathan Ventura poteva andare: in nessun posto.

Immobile come il destino di una statua, viaggiava, ma solo con il pensiero, fin dove il cuore gli permetteva di arrivare, perché a un certo punto di tutto quel pensare si sentiva ogni volta più affaticato e sofferente di quando aveva attraversato il Sahara, navigato oltre l’Oceano Indiano, scalato di notte le cime del Monte Bianco, affrontato il giorno lungo sei mesi al Polo Sud, ed era restato in bilico un’eternità sul ciglio dell’Hardangerfyord, il fiordo più invitante e per questo insidioso dell’intera Norvegia. Ordinò al suo cuore, senza esserne obbedito, di smettere di correre: i ricordi fanno male, fanno sempre male, si disse. E perfino la rincorsa dei propri battiti non aveva senso: non c’era più una meta, più nessuna fretta.

Gomiti appoggiati al davanzale il professor Jonathan Ventura, esploratore prigioniero, rovistò con lo sguardo il fogliame al limitare del bosco davanti alla casa. Ė l’ora giusta, sillabò piano senza guardare l’orologio. Non era una novità: non lo guardava mai, sapeva sempre in qualunque momento la posizione delle lancette, perché il tempo non aveva segreti per lui, ma ora più nemmeno significato. Sarà qui tra esattamente due secondi, aggiunse piano. Un tremolio scosse il fogliame. Il gatto, dalla folta pelliccia nera a chiazze bianche, avanzò con la circospezione sicura di chi conosce la strada ma non si fida, perché i gatti non si fidano di niente e nessuno, e solo a volte fanno un’eccezione.

«Bentornato», salutò il professor Ventura.

Il gatto miagolò una risposta.

«Come va là fuori?».

Il gatto miagolò un’altra risposta.

Il dialogo andava avanti così da settimane. Forse mesi. Ma non importava: Jonathan Ventura, che poteva dirti l’ora esatta in qualunque momento, si rifiutava di calcolare il tempo che passava. Non puoi tener conto del tempo, se temi che duri per sempre. E poi l’importante era che il dialogo funzionasse, qualunque cosa stesse dicendo quel gatto bianco e nero.

«Allora alla prossima», disse l’esploratore in isolamento obbligato.

Il miagolio che seguì fu un arrivederci.

Il professor Jonathan Ventura staccò i gomiti dal davanzale e chiuse la finestra. Ma una volta all’interno della casa si sentì soffocare e per sfuggire alla sensazione di asfissia come al solito accese la radio. Non la tv, perché non poteva sopportare di vedere il mondo solo attraverso uno schermo.

«Buonasera, vi raccomandiamo di non uscire di casa…», esordì l’annunciatore.

«Questa l’hai già detta», mormorò di rimando l’esploratore Ventura.

«Cominciamo dal consueto bollettino di aggiornamento sull’andamento dell’epidemia…».

«Sentiamo…».

Anche questo in fondo era un dialogo, in assenza di alternative.

«Oggi i nuovi contagi sono stati…, i pazienti negativi…, i decessi…Come si può capire, non si tratta di segnali incoraggianti. Solo scoprendo l’origine del virus, si troverà una via d’uscita».

«Già».

«Pertanto al momento vi raccomandiamo…».

Le giornate passavano così, rimbalzando uguali e inutili come una pallina di gomma agitata in una scatola. Puntuale alla stessa ora, si presentava il gatto bianco e nero. Ciao, amico mio. Miagolio. Come stai? Miagolio. Alla prossima. La radio elencava numeri che il mondo non capiva più. ContagiPazienti negativiDecessiCi raccomandiamo

I gomiti appoggiati al davanzale, lo sguardo proteso su panorami inesistenti, ogni giorno il professor Jonathan Ventura partiva, ma solo con la mente, diretto verso terre senza nome. Fu in una di queste giornate che la pallina uscì dalla scatola. E smise di rimbalzare senza senso. Fu quando la radio alle spalle di Jonathan Ventura disse:

«Continua con successo la ricerca delle possibili origini del virus. Il cerchio si stringe: secondo le ultime ricerche il contagio potrebbe essersi sprigionato da un serpente, da un pesce o da una scimmia…».

L’esploratore si girò di scatto, aveva lo sguardo perso nel tempo, come impigliato in un ricordo lontano. Fissò la radio e non fu un dialogo, ma un urlo:

«No, no, è un topo! È colpa di un topo! Un topo».

E senza rendersene conto tornò alla finestra, perché l’ora era quella giusta. E appena il fogliame al limitare del bosco si scosse e il gatto avanzò sollevando il muso verso di lui, l’esploratore disse, senza troppi preamboli:

«Devi farmi un favore».

Quella notte dormì sogni più inquieti del solito. E si ritrovò a Tijuca, la foresta pluviale che come un cappello verde nasconde i pensieri inconfessabili di Rio de Janeiro, ne avvolge le chiome con arariba, inga, ipê-amarelo, tibouchina e mille altre specie di alberi e piante. E si rivide attraversare quel catalogo naturale di esuberanza tropicale. E arrivare al cuore nascosto della foresta. E trovare una tenda e scostarne l’ingresso ed essere investito dal calore e dal fetore che scaturiva dall’interno. E riconoscere nell’oscurità, poco alla volta, uno per uno, i membri di una famiglia, padre, madre e un neonato riposto più lontano in una culla, versione blasfema di una sacra famiglia dimenticata da Dio, avvolta nel sudario di un dolore ripugnante, in preda a una febbre incontrollabile, sofferente di un patimento sconosciuto, terrorizzata da un male incomprensibile. E li sentì gridare, padre e madre, indicando il guizzo di una coda di ratto che fuggiva indifferente, oltre la culla:

«Il topo, il topo! È colpa del topo!».

Il professor Jonathan Ventura si risvegliò coperto di sudore. Portò la destra alla fronte spaventato all’idea di sentirla scottare. Era gelata, ma scoprirlo non fu un sollievo. Restò a letto fissando il soffitto poiché temeva che anche solo socchiudendo gli occhi l’incubo sarebbe tornato. Si alzò all’alba. Andò alla finestra. I gomiti sul davanzale, si mise ad aspettare. E stavolta si stupì di non riuscire più a indovinare quando sarebbe arrivata l’ora giusta.

Il tremolio delle fronde lo sorprese quando aveva ormai dilapidato nello sconforto l’ultima speranza. Il muso conosciuto spuntò da sotto le foglie, poi un orecchio nero, e subito l’altro, bianco. Era lui. Non miagolò per salutare. Non poteva. Jonathan Ventura, professore ed esploratore, capì subito perché. E non occorreva essere né professore, né esploratore per arrivare a una conclusione: nelle fauci del gatto un piccolo corpo inanimato, le zampette pendule, la coda e la testa simmetricamente abbandonate.

«Un topo!», urlò Jonathan Ventura.

Forse fu coincidenza, o un trucco della sorte, o ancora lo sberleffo del Destino, nessuno saprà mai spiegare perché proprio in quel momento la radio alle spalle dell’esploratore che vide Tijuca, i fiordi norvegesi, il Polo Sud, il Monte bianco, l’Oceano Indiano e anche il Sahara, improvvisamente annunciò:

«Signore e signori, siamo lieti di informarvi che l’origine dell’epidemia è stata finalmente e scientificamente comprovata. La causa di tutto è un topo. Presto sarà preparato un vaccino. E l’epidemia sarà finalmente sconfitta. Signore e signori, è finita».

I gomiti appoggiati al davanzale, il professor Jonathan Ventura sorrideva indovinando nuovi orizzonti oltre il bosco davanti alla casa. Erano passati pochi giorni, non ha importanza quanti, dalla dichiarazione ufficiale di «epidemia debellata». Comunque, troppo a lungo Jonathan Ventura aveva aspettato ancora affacciato alla finestra, ma l’ora giusta non era più tornata. Sparito il gatto bianco e nero, probabilmente contento di aver soddisfatto il favore richiesto da un amico. Di più non gli si poteva chiedere, di più non poteva fidarsi. Nemmeno del topo catturato restò traccia.

La mattina dopo, alzatosi di buon’ora, l’esploratore e professore Jonathan Ventura aprì la porta di casa e si fermò sulla soglia. Era di nuovo pronto. Aveva sulle spalle lo zaino preparato già da un po’ di tempo. Per l’esattezza da settemilanovecentoventisette ore e quindici minuti. Non ebbe bisogno di guardare l’orologio per dirlo.

          Gianluigi Schiavon