Perché “Ok Computer” dei Radiohead è un classico

La notizia, prima di tutto. La biblioteca del Congresso degli Stati Uniti ha annunciato di aver inserito “Ok computer”, disco dei Radiohead, nel suo catalogo. Ogni anno sceglie 25 registrazioni audio. C’è molto jazz, c’è molta musica americana. Per questo 2015, a esempio, ci sono Chet Baker e i Doors. Classici nell’accezione più estesa del […]

La notizia, prima di tutto. La biblioteca del Congresso degli Stati Uniti ha annunciato di aver inserito “Ok computer”, disco dei Radiohead, nel suo catalogo. Ogni anno sceglie 25 registrazioni audio. C’è molto jazz, c’è molta musica americana. Per questo 2015, a esempio, ci sono Chet Baker e i Doors. Classici nell’accezione più estesa del significato di questa parola. Ma anche i Radiohead possono considerarsi, appunto, dei classici. E soprattutto quel disco lì, “Ok computer”, già dal titolo, lo è. E’ un disco epocale, nel senso letterale del termine. Partiamo dal titolo. Quel titolo ancor prima di aver ascoltato tutto il disco è una dichiarazione programmatica. Rafforzata col senno di poi da quello che è stato poi il percorso dei Radiohead. Ok computer come a dire, benvenuto computer. E’ un disco che per la storia dei Radiohead rappresenta uno spartiacque. Nulla per loro e per la musica, nel senso più stretto per il rock, sarà più come prima. Non è un riposizionamento dei Radiohead sul mercato musicale. E’ una precisa scelta artistica. Fino al 1995 – sono vent’anni da “The bends”, il secondo disco della band di Oxford – i Radiohead venivano considerati come uno dei tanti e nemmeno troppo stilosi (basti pensare ai Suede o agli stessi Pulp dei Jarvis Cocker) della scena brut-pop. D’altronde non giocava di certo a loro favore il singolo che li aveva fatti conoscere: “Creep”, un po’ per il testo, un po’ anche perché il successo di questa canzone arriverà molto in ritardo (tanto che per il primo disco “Pablo Honey”, i Radiohead punteranno su un altro singolo). Ma è l’estate del 1997 quando esce questo disco la stagione della svolta. In Italia ci si trova a ragionare sulla scalata alle classifiche di vendita del Consorzio Suonatori Indipendenti (perfino il Tg1 darà la notizia) con “Tabula Rasa Elettrificata”. E su come dei vecchi punk “irregolari” (perché il punk di per sé è l’annullamento della tecnica, qualora ci sia, quello che è importante il messaggio e la sua irriverenza allo status quo) siano diventati la stella polare della scena rock italiana. In questo contesto storico italiano arriva “Ok computer”. Che si capirà sin da subito, sin dal primo ascolto, sin da “Paranoid android”, sin dal suo video, che è qualcosa che va a riscrivere, ove è possibile, la semplificazione di catalogare come rock tutto o quasi che non abbia un’evidenza mainstream. Il rock è morto? Forse è solo rinato. E lì dove le chitarre avevano spazio preponderante, ecco affacciarsi il computer. Macchina infernale? Tutt’altro. Una macchina, uno strumento come un altro per fare musica. Per provocare emozioni. Perché “Ok computer” è un disco di emozioni forti. Partendo proprio da quella “Paranoid android” e a quel verso che ti rimbalza in testa a oltranza (“the yuppies networking, the panic the vomit”, ossia gli yuppies tengono i contatti, il panico, il vomito). Fine di un’epoca, anche dal punto di vista del lavoro, della produzione di saperi, della fruizione della cultura e della musica stessa (il cd, digipack o no, sta attraversando la sua ultima fase). E i Csi, stesso anno, cantano a loro volta: “sogno tecnologico bolscevico, atea mistica meccanica, macchina automatica no anima, macchina automatica no anima”. Siamo nel 1997, ecco perché il disco dei Radiohead diventa in qualche maniera epocale. E’ l’epoca della riproducibilità tecnica portata allo stremo. Ma per dirla alla Benjamin come può un disco non perdere la sua aura? Solo le canzoni e quel transfert sul proprio vissuto tanto da diventare delle vere e proprie mozioni degli affetti, possono riuscire nell’intento di non far perdere l’aura a un disco riprodotto in milioni di copie e suonato in milioni di apparecchi simili. “Ok computer” è un capolavoro perché riesce con una manciata di canzoni a descrivere un’epoca di passaggio. Quel passaggio che ci farà dire, guardandosi indietro, che nulla sarà più come prima. Anche per la musica. E loro i Radiohead pervicacemente perseguiranno questa strada per vedere dove la tecnica musicale che riesce a saldarsi con l’elettronica porterà il loro lavoro. Arriveranno anni dopo “Kid A” e “Amnesiac”. Senso di straniamento, soprattutto per il primo, ascoltandolo e pensando al passato dei Radiohead. Ma funzionale al percorso artistico e coerente. Thom Yorke, il leader, arriverà a proporre come dj (è di quegli anni anche il cambiamento epocale di come un dj non sia più solamente uno che mette su i dischi, ma un musicista capace di fare e produrre musica, utilizzando la sua abilità tra i piatti e i campionamenti) musica elettronica talvolta sconosciuta ai più. Ma tornando a “Ok computer” il percorso che indicano i Radiohead con qualche anno d’anticipo più che essere profetico, è rassicurante: si farà musica anche con i bit ma non sarà mai qualcosa di plastificato. Provare per credere se non l’avete ancora fatto: da “Paranoid Android” a “No surprises” è un manifesto musicale sul futuro. Ed ecco perché, a ragione dopo 18 anni (raggiunta appunto la maggiore età), “Ok computer” può considerarsi a tutti gli effetti un classico.

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