Rilke. L’ottava elegia

VEDI I VIDEO “Ottava elegia” , “Annunciazione (Le parole dell’Angelo)” , “Sonetti a Orfeo, I” , “Autunno” , “Tacito amico delle molte lontananze, senti” Firenze, 9 ottobre 2017 Ottava elegia È l’animale, tutto, nello sguardo vólto all’Aperto: fuori del tempo, nello spazio immenso. Ma gli occhi abbiamo, noi, come riversi: e tesi, al par di […]

VEDI I VIDEO “Ottava elegia” , “Annunciazione (Le parole dell’Angelo)” , “Sonetti a Orfeo, I” , “Autunno” , “Tacito amico delle molte lontananze, senti”

Firenze, 9 ottobre 2017

Ottava elegia

È l’animale, tutto, nello sguardo

vólto all’Aperto:

fuori del tempo, nello spazio immenso.

Ma gli occhi abbiamo, noi, come riversi:

e tesi, al par di reti, a imprigionare

il suo libero passo.

Lo spazio immenso, che trascende il tempo,

solo riflesso dal suo vólto intento,

si svela a noi.

Poi che il fanciullo tenero volgiamo

súbito indietro; e lo forziamo già

a rimirare il mondo delle forme;

ma non l’Aperto, che profondo spazia

in ogni vólto d’animale ignaro:

e non lo sfiora il senso della morte.

Noi non abbiamo, ahimè, dinanzi agli occhi

se non la morte.

L’animale ha la morte
dietro sé:

e a sé
davanti, Dio.

Quando cammina, nell’Eterno incede.

Come incedono i fiumi.

Noi non abbiamo innanzi, un giorno solo,

il puro spazio in cui sbocciano i fiori

inesauribilmente.

Tutto, d’intorno, ai nostri sguardi, è
Mondo.

Non mai, lo spazio sterminato etèreo,

incustodito e intatto,

che si respira; e che, infinitamente

intuito, si sa, — senza bramarlo.

Da bimbi, ci si sperde in quello spazio,

scossa in silenzio l’anima beata.

O vi si entra, quando agonizziamo,

e si diventa spazio a poco a poco.

Ché non è dato ravvisar la morte,

come ci giunge accanto:

sbarriamo gli occhi fuori di noi stessi,

con uno sguardo d’animale, — immenso.

Gli Amanti, — ove non fossero, tra loro,

schermo e muraglia — all’insueto Aperto,

stupefatti, sarebbero vicini.

Capzioso, si schiude dietro ognuno.

Ma, l’
altro, non vi evade. E novamente,

intorno a entrambi, si richiude il mondo.

Al creato rivolti senza posa,

nel creato vediamo rispecchiarsi

l’etèreo spazio: ma nel suo riverbero,

che si appanna di noi.

Leva talvolta un animale, muto,

il suo sguardo tranquillo.

E ci percorre dentro, in ogni fibra.

Essere a fronte, eternamente a fronte

di un concretato mondo: ecco il Destino.

Se una coscienza fosse, — una coscienza

come la nostra — nel sicuro e calmo

animale che viene ad incontrarci,

oh noi saremmo trascinati dentro

quel suo vagare!… Ma, per lui, l’esistere

è senza fine. Spento; e inconcepibile

dalla luce degli occhi. Immacolato,

come il suo sguardo. E dove noi scorgiamo

il futuro e non altro, egli ravvisa

il Tutto immenso; e se stesso — in quel Tutto —

salvo e redento per l’eternità.

Ma vive tuttavia, nell’animale

vigile e caldo,

il peso, in ansia, d’una grande angoscia.

Ché mai non lo abbandona la memoria

d’essere stato piú vicino, un tempo,

al mondo ch’egli anela di raggiungere:

a quello avvinto in fedeltà piú stretta,

con nodi di dolcezza senza fine.

Tutto è distanza qui, ciò che respiro

era colà. Dopo quel primoasilo,

gli appare infido questo: e tempestato

da vènti avversi.

Felicità divina dell’insetto,

che rimane, per sempre, dentro il grembo,

onde nasceva: nello spazio immenso.

O díttero, che dentro vi saltelli,

pur quando giunge il tempo delle nozze!

Il grembo è tutto. E malsicuri avventano

gli uccelli il volo, — poiché, già nascendo,

sanno le sorti entrambe,

quasi fossero anime di Etruschi

vaporate entro l’urna dello spazio

con la figura in sonno sul coperchio.

Oh la tremenda angoscia dell’alato,

costretto al volo, anche se proviene

dall’angustia di un grembo!

Il suo terrore di se stesso solca

sinistramente l’ètere, guizzando:

e par l’incrinatura,

che fende la purezza d’una coppa.

Non il volo, cosí, del pipistrello

strappa la porcellana della sera?

Spettatori in eterno e in ogni dove,

rivòlti verso il Tutto, e incatenati

entro le sue prigioni,

l’universo ci colma: e in noi trabocca.

Lo rassettiamo. E ci si sfascia in pezzi.

Lo si raggiusta. E l’universo frana.

… E noi franiamo insieme.

Chi mai ci deformò, chi ci stravolse

cosí, che sempre ripetiamo il gesto

di prendere congedo?

Come quei che sull’ultima collina,

onde si schiude il prodigioso incanto

della valle beata,

sosta e si volge indietro a riguardare

cosí viviamo noi la nostra vita

in una serie di commiati, eterna.

(traduzione di Vincenzo Errante)

Die achte Elegie

Mit allen Augen sieht die Kreatur

das Offene. Nur unsre Augen sind

wie umgekehrt und ganz um sie gestellt

als Fallen, rings um ihren freien Ausgang.

Was draußen ist, wir wissens aus des Tiers

Antlitz allein; denn schon das frühe Kind

wenden wir um und zwingens, daß es rückwärts

Gestaltung sehe, nicht das Offne, das

im Tiergesicht so tief ist. Frei von Tod.

Ihn sehen wir allein; das freie Tier

hat seinen Untergang stets hinter sich

und vor sich Gott, und wenn es geht, so gehts

in Ewigkeit, so wie die Brunnen gehen.


Wir haben nie, nicht einen einzigen Tag,

den reinen Raum vor uns, in den die Blumen

unendlich aufgehn. Immer ist es Welt

und niemals Nirgends ohne Nicht: das Reine,

Unüberwachte, das man atmet und

unendlich
weiß und nicht begehrt. Als Kind

verliert sich eins im Stilln an dies und wird

gerüttelt. Oder jener stirbt und ists.

Denn nah am Tod sieht man den Tod nicht mehr

und starrt
hinaus, vielleicht mit großem Tierblick.

Liebende, wäre nicht der andre, der

die Sicht verstellt, sind nah daran und staunen…

Wie aus Versehn ist ihnen aufgetan

hinter dem andern… Aber über ihn

kommt keiner fort, und wieder wird ihm Welt.

Der Schöpfung immer zugewendet, sehn

wir nur auf ihr die Spiegelung des Frein,

von uns verdunkelt. Oder daß ein Tier,

ein stummes, aufschaut, ruhig durch uns durch.

Dieses heißt Schicksal: gegenüber sein

und nichts als das und immer gegenüber.

Wäre Bewußtheit unsrer Art in dem

sicheren Tier, das uns entgegenzieht

in anderer Richtung –, riß es uns herum

mit seinem Wandel. Doch sein Sein ist ihm

unendlich, ungefaßt und ohne Blick

auf seinen Zustand, rein, so wie sein Ausblick.

Und wo wir Zukunft sehn, dort sieht es Alles

und sich in Allem und geheilt für immer.

Und doch ist in dem wachsam warmen Tier

Gewicht und Sorge einer großen Schwermut.

Denn ihm auch haftet immer an, was uns

oft überwältigt, – die Erinnerung,

als sei schon einmal das, wonach man drängt,

näher gewesen, treuer und sein Anschluß

unendlich zärtlich. Hier ist alles Abstand,

und dort wars Atem. Nach der ersten Heimat

ist ihm die zweite zwitterig und windig.

O Seligkeit der
kleinen Kreatur,

die immer
bleibt im Schooße, der sie austrug;

o Glück der Mücke, die noch
innen hüpft,

selbst wenn sie Hochzeit hat: denn Schooß ist Alles.

Und sieh die halbe Sicherheit des Vogels,

der beinah beides weiß aus seinem Ursprung,

als wär er eine Seele der Etrusker,

aus einem Toten, den ein Raum empfing,

doch mit der ruhenden Figur als Deckel.

Und wie bestürzt ist eins, das fliegen muß

und stammt aus einem Schooß. Wie vor sich selbst

erschreckt, durchzuckts die Luft, wie wenn ein Sprung

durch eine Tasse geht. So reißt die Spur

der Fledermaus durchs Porzellan des Abends.

Und wir: Zuschauer, immer, überall,

dem allen zugewandt und nie hinaus!

Uns überfüllts. Wir ordnens. Es zerfällt.

Wir ordnens wieder und zerfallen selbst.

Wer hat uns also umgedreht, daß wir,

was wir auch tun, in jener Haltung sind

von einem, welcher fortgeht? Wie er auf

dem letzten Hügel, der ihm ganz sein Tal

noch einmal zeigt, sich wendet, anhält, weilt –,

so leben wir und nehmen immer Abschied.

Rainer Maria Rilke

(da Elegie di Duino, in Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante, 1941)

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