Pavese, Gella e la gente che non capisce

VEDI I VIDEO “Gente che non capisce” , “Lavorare stanca” , “Il confino di Cesare Pavese” di Giuseppe Taffarel (1967) , Da “Il mestiere di vivere” , Rarità: Pavese secondo Pasolini Firenze, 13 dicembre 2018 – Della maturità, una categoria di matrice psicologica, Pavese aveva fatto un mito, un traguardo da raggiungere; a tre parole […]

VEDI I VIDEO “Gente che non capisce” , “Lavorare stanca” , “Il confino di Cesare Pavese” di Giuseppe Taffarel (1967) , Da “Il mestiere di vivere” , Rarità: Pavese secondo Pasolini

Firenze, 13 dicembre 2018 – Della maturità, una categoria di matrice psicologica, Pavese aveva fatto un mito, un traguardo da raggiungere; a tre parole (tratte però dal “King Lear” di Shakespeare, da un’opera per antonomasia) resta affidato quell’obiettivo e il significato persistente di un esempio: “Ripeness is all”, la maturità è tutto. Fu questo – com’è noto – il mito che costò all’uomo l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto del 1950).

Ma fu questo il mito che alimentò, assieme e al di là delle ideologie professate, una produzione letteraria sistematicamente impostata all’insegna della conoscenza e della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile, del superamento e della crescita. “Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura unità di tutto quanto ho scritto o scriverò”.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, nella raccolta poetica che segnò il suo debutto, “Lavorare stanca”, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze ma dure opposizioni, lacerazioni, contrasti, e tra essi città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia: una fenomenologia conflittuale già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella scissione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore.

Questa divaricazione e questi conflitti li ritroviamo in controluce, lievito ispirativo efficiente, nella bellissima poesia di oggi.

Marco Marchi

Gente che non capisce

Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.

Gella sa che a quest’ora sua madre ritorna dai prati

col grembiale rigonfio. In attesa del treno,

Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero

di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l’erba.

Gella sa che sua madre da giovane è stata in città

una volta: lei tutte le sere col buio ne parte

e sul treno ricorda vetrine specchianti

e persone che passano e non guardano in faccia.

La città di sua madre è un cortile rinchiuso

tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi.

Gella torna ogni sera con gli occhi distratti

di colori e di voglie, e spaziando dal treno

pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie

tra le luci, e colline percorse di viali e di vita

e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.

Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera

e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.

La città la vorrebbe su quelle colline,

luminosa, segreta, e non muoversi più.

Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova

i fratelli che tornano scalzi da qualche fatica,

e la madre abbronzata, e si parla di terre

e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda

che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell’erba:

solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda

a raccogliere l’erba, perché da trent’anni

l’ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta

ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.

Anche Gella vorrebbe restarsene sola, nei prati,

ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.

E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba

e magari nel fango e mai più ritornare in città.

Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno.

Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi

e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,

di rugiada notturna. Indurirsi le carni

e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città

non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire

e sorride al pensiero di entrare in città

sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne

non saranno scomparse, e potrà passeggiare

per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,

Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.

Cesare Pavese

(da “Lavorare stanca”, 1936)

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