Palazzeschi e il poeta sepolto vivo

VEDI I VIDEO “Postille” letta da Giovanni De Nava , “Rio Bo” letta da Vittorio Gassman , “I fiori” letta da Paolo Poli , Miniantologia poetica: “Versi dalla casina di cristallo” Firenze, 4 maggio 2015 – La letteratura si profila subito per Aldo Palazzeschi (quell’Aldo Giurlani che già nella scelta di uno pseudonimo assunto al momento del debutto […]

VEDI I VIDEO “Postille” letta da Giovanni De Nava , “Rio Bo” letta da Vittorio Gassman“I fiori” letta da Paolo PoliMiniantologia poetica: “Versi dalla casina di cristallo”

Firenze, 4 maggio 2015 – La letteratura si profila subito per Aldo Palazzeschi (quell’Aldo Giurlani che già nella scelta di uno pseudonimo assunto al momento del debutto tende a nascondersi e ambiguamente ad esibirsi), come una grande finzione rivelante, come scena delle dislocazioni dell’io in figure e personaggi, come nuova biografia fantastica – di progressivo, liberatorio superamento di quella che lo scrittore avrebbe poi definito, retrospettivamente, «una giovinezza turbata e quasi disperata» – all’insegna di un autobiografismo delle possibilità che intreccia autobiografismo della mimesi e del rispecchiamento e autobiografismo del desiderio: dell’alterità avvertita come potenzialità rimasta tale e invece, in scrittura, assolutizzata, resa protagonistica, viva, in sintonia con la verità impavidamente espressa da uno dei celebri motti di Oscar Wilde: «Chi ha più di una volta vissuto, deve più di una volta morire», e in accordo con quanto sosteneva André Gide – quell’André Gide di cui peraltro è tramandato un giudizio singolarmente lusinghiero su Sorelle Materassi –, quando nel suo La tentative amoureuse, poi raccolto in Le retour de l’enfant prodigue sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili».

La letteratura, la scrittura, l’arte come uno spazio alternativo per maschere dell’impossibile o del creduto tale, per definizioni e incarnazioni di ciò che l’io avrebbe voluto essere e non è stato, per stratagemmi sostitutivi e riparatori di un io profondo cui la vita non ha concesso quella realizzazione di potenzialità nascoste, biograficamente vietate o rese difficili ma esistenzialmente sensibilissime: un teatro immaginario di parole che surroga la vita e insieme la completa, fino, concorrenzialmente, a sostituirla, a prenderne il posto.

Paradossalmente nel libro di versi del debutto poetico palazzeschiano, I cavalli bianchi, del 1905, l’io di chi con le sue parole vorrebbe rivelarsi è grammaticalmente assente, non dice affatto – come sarebbe lecito aspettarsi – di sé, liricamente di sé. Alla soggettività mortificata ed annientata fa invece riscontro il protagonismo in chiave collettiva e impersonale di un altro personaggio: «la gente» (quella gente, diciamo pure, che pone problemi all’io, che, intimidatoria e potente, impone divieti, contrasta il suo libero espletamento espressivo fino a soffocarlo).

Eppure quei testi in cui l’io, sistematicamente vessato e prevaricato, latita ci si rivelano presto, tra inibizione e turbamento di una giovinezza solitaria e «quasi disperata», testi sensibilmente tramati di autobiografismo, o meglio di quella più complessa, occulta «autobiografia del profondo» – secondo una definizione di Luigi Baldacci – disposta a dichiararsi, se non attraverso un io grammaticalmente assunto, attraverso altre risorse della scrittura, specialmente della scrittura poetica: immagini, iterazioni, parole chiave, sonorità, una versificazione che è sostanzialmente una ritmica ossessiva, volta esprimere anch’essa un sostanziale bloccaggio dell’io, una costrizione paragonabile alla circolarità e alla chiusura di immagini ricorrenti, dei movimenti stessi inscenati in quel teatro senza parole dalla gente che va e viene, circolarmente come in un opprimente girone dantesco senza fine.

Gente che guarda, che spia e perseguita un io non espressamente dichiarato e reso libero di dichiararsi, impaurito a tal punto, potremmo dire, atterrito, da occultarsi del tutto, da lasciare agli sguardi persecutori di chi lo vorrebbe ininterrottamente scrutare, criticare, condannare, soltanto vaghi indizi della propria presenza, tracce ambigue e misteriose del proprio essere passato di lì, lui braccato, dolorante e in fuga, prima della scomparsa. In seguito, però, la scoperta del comico avrebbe ridefinito a sufficienza per Palazzeschi gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti: come accade esemplarmente nei versi di queste esilaranti Postille all’insegna di una sparizione volontaria, da poeta che «vive sepolto» in una bella villa toscana in compagnia di strani, devoti e compiacenti servitori.

Marco Marchi

Postille

Il poeta… C. Z.,

stanco della vita mondana,

non sognò più che una mèta:

la vita tranquilla.

E si ritirò

in una sua bellissima villa

in Toscana.

Solo, colla sua servitù,

si rinserrò là dentro

per non uscirne più.

I suoi servitori

vestivano, a festa di dentro,

a lutto di fuori.

A lato del cancello,

al posto del solito cartello

e del solito nome col solito campanello,

vi fece murare, come coi morti s’usa fare,

una lapide bianca, di marmo,

su cui era scritto così:

Qui vive

sepolto

un poeta.

E vi si seppellì.

Ma il giorno seguente

due camerieri

accorron dal loro signore

affannati e stravolti.

– Che c’è?

– Signore!

– Signore!

– Sapete?

– Sapete?

– Che cosa?

– Là fuori, al cancello…

sul marmo ov’è scritto: qui vive,

sapete? Accanto alla parola: poeta

C’è scritto…

– C’è scritto?

– Una brutta parola signore.

– Sentiamo.

– C’è scritto… imbecille.

– Oh!… Dio…

(Sarà forse passato

un mio compagno antico,

qualche collega, qualche vecchio amico)

Restate tranquilli,

non son che… postille…

– E sotto, piccino, piccino,

c’è scritto: cretino.

– (Ormai giunto alla mèta

non voglion risparmiare

neppure l’ultimo verso

al povero poeta)

Restate tranquilli,

non son che postille,

lo scrivon più o meno a tutti i cancelli

di tutte le ville.

– Signore!

– Signore!

– Avanti, sentiamo.

– In grande su in cima,

vicino a: qui vive, c’è scritto: un pazzo,

e dopo la parola: poeta, c’è scritto: del cazzo.

– Postille! Postille!

– E dopo: coglione,

c’hanno scritto col carbone.

Vivo o morto è lo stesso,

caro poeta,

sarai sempre un fesso.

– (E’ l’eco del mondo dove più non vivo,

Sono i vari pareri sul libro che non scrivo).

Restate tranquilli v’ho detto.

– Nell’angolo in lapis violetto:

Quale insperata mèta!

un manicomio sì grande,

per sì piccolo poeta!

– (Postille al frontespizio

del libro che non scrissi,

dell’ultimo poema

che solamente vissi)

– Buffone!

– Ruffiano!

– Maiale!

– Dopo la parola poeta.

– Benone!

(Mi giungono le voci quassù

come se leggessi il giornale

che non leggo più)

– Stupisci o passeggero!

Per un pazzo solo

Un manicomio intero!

– Questa è la tomba

del poeta bomba.

E in lapis copiativo…

– E in lapis copiativo?

– Pederasta passivo.

– Ma bene, benone!

– Dovranno lavare col sangue

gl’insulti, i signori passanti!

– Sapremo appostarci e col nostro pugnale

ficcargliela in gola,

ad ognuno,

la propria parola.

– Pianino, pianino ragazzi,

pianino col sangue!

Tenete la chiave dell’armadio grande,

prendete il bacile d’argento

a putti e ghirlande,

(serviva a nettare le labbra e le dita

dei convitati alla fine dei pranzi

quando il poeta era in vita)

dell’acqua, una spugna,

ed ogni mattina,

nella vostra opera di pulizia

il primo lavoro sia quello:

lavare bene bene la lapide al cancello,

senza sgarrare,

non c’è altro da fare.

– Col sangue

dovranno lavarla i passanti!

– Col sangue!

– Mi sembra che l’acqua

sia un lavacro più spiccio,

col sangue, miei cari,

finireste per fare

un curioso pasticcio.

– Vigliacchi! Sfregiare una tomba!

– Insultare un sepolto!

– Lo sanno lo sanno

che sotto quel marmo c’è un morto che ode,

non spunterebbero il lapis con tanto affanno,

o avrebbero lode;

i morti, di solito, li lodano molto

o li lasciano in pace;

prima della parola: sepolto,

là fuori, c’è scritto: qui vive, non giace.

Già i morti di fronte,

giganteschi santi

dai manti turchini

che gli scendono giù ampi

in morbidi inginocchiamenti,

s’apprestano a cingere l’aureola abituale,

e immobili nei loro inchini

aspettano il passaggio del sole.

Tremulano nell’aria

Gli ultimi gorgheggi degli usignoli.

I rami sporgenti dai muricciuoli

scuotono rosei fiori

sulla via bianca polverosa

della campagna silenziosa.

Due servitori in livrea di strettissimo lutto

aprono un grande cancello.

E con spugna e bacile

lavano bene bene un cartello di marmo

dappertutto.

Guardan dipoi su e giù per il viale

a dritta e a manca

prima di rientrare:

“la lapide è bianca,

signori passanti,

la vostra parola ci manca,

avanti! avanti!

Aldo Palazzeschi

(da Poesie, Vallecchi 1925)

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