Orfeo ed Euridice secondo Rilke

VEDI I VIDEO “Orfeo. Euridice. Ermes” , “Orpheus. Eurydike. Hermes” ,“J’ai perdue mon Eurydice” di Gluck cantata da Maria Callas , “Euridice” di Roberto Vecchioni Firenze, 11 settembre 2014 Orfeo. Euridice. Ermes Era l’arcana miniera delle anime. Esse per quella tenebra vagavano, mute vene d’argento. Tra radici sgorgava il sangue che affluisce agli uomini, e greve come porfido […]

VEDI I VIDEO “Orfeo. Euridice. Ermes”“Orpheus. Eurydike. Hermes” ,“J’ai perdue mon Eurydice” di Gluck cantata da Maria Callas“Euridice” di Roberto Vecchioni

Firenze, 11 settembre 2014

Orfeo. Euridice. Ermes

Era l’arcana miniera delle anime.

Esse per quella tenebra vagavano,

mute vene d’argento. Tra radici

sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,

e greve come porfido sembrava

in quel buio. Di rosso altro non v’era.

V’erano rocce,

boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto

e quello stango grande, grigio, cieco

che incombeva sul suo letto remoto

come cielo piovoso su un paesaggio.

E la striscia dell’unico sentiero,

scialba tra prati, facile e paziente,

pareva lino steso a imbiancare.

Per quell’unica via i tre venivano.

Primo, nel manto azzurro, l’uomo snello,

muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.

Il suo passo ingoiava il sentiero

a grandi morsi, senza masticare;

dalle pieghe cadenti gli pendevano

le mani, grevi e serrate, ormai

dimentiche di quella lieve lira

che sulla sua sinistra era cresciuta

come tralci di rosa sull’ulivo.

E i suoi sensi sembravano divisi:

l’occhio correva avanti come un cane,

si voltava, tornava e ripartiva

e aspettava lontano, a ogni curva,

ma l’udito indugiava come l’odore.

Talvolta a lui pareva che intralciasse

il passo agli altri due che dovevano

seguirlo su per tutta la salita.

Allora dietro solo l’eco

dei suoi passi e il vento nel mantello.

Ma diceva a se stesso che venivano,

e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.

Sì, venivano infatti, ma entrambi

avevano il piede troppo lieve.

Se si fosse voltato (e non poteva,

poichè un solo sguardo frantumava

tutta l’impresa da portare a termine),

li avrebbe visti, i due dal piede lieve,

camminare in silenzio alle sue spalle:

il dio del moto e dell’ampio messaggio,

con il casco sugli occhi luminosi,

l’agile verga tesa innanzi al corpo,

le ali oscillanti intorno alle caviglie;

e nella sua sinistra, in pegno, lei.

Lei, tanto amata che una sola lira

levò lamento più che mai le prefiche;

e sorse un mondo di lamento in cui

tutto ricompariva: bosco e valle,

strada e paese, campo e fiume e bestie;

e intorno a questo mondo di lamento,

così come intorno all’altra terra,

un sole si volgeva, e tutto un cielo

pieno di stelle, silenzioso, un cielo

di lamento con stelle sfigurate-:

lei, tanto amata.

Ma, tenuta per mano da quel dio,

con il passo frenato dalle lunghe

bende funebri, ella camminava

incerta, mite e senza impazienza.

Raccolta in sè e come trasognata,

non pensava a colui che le era innanzi,

nè alla strada su verso la vita.

Era raccolta in sè, e la impregnava

il suo stato di morte.

Se un frutto è pegno di dolcezza e d’ombra,

quella sua grande morte colmava,

così nuova che nulla lei coglieva.

A una verginità nuova era giunta,

e intangibile; il suo sesso era chiuso

come un giovane fiore verso sera,

e le sue mani così disavezze

alla vita nuziale che persino

il contatto di quell’esile dio

tanto lieve e gentile nel condurla,

la turbava per troppa confidenza.

Ormai non era quella donna bionda

che si udiva nei canti del poeta,

non più il profumo e l’isola del talamo,

nè più era il possesso dell’uomo.

Era già sciolta come una lunga chioma

e già dispersa come pioggia in terra,

e diversa come retaggio in cento.

Ella era già radice.

E quando all’improvviso

il dio la fermò e con dolore

pronunciò le parole: Si è voltato!-,

lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma lassù, scuro sull’uscita chiara,

stava qualcuno, irriconoscibile.

Stava e guardava un tratto del sentiero

in mezzo ai prati ove il dio del messaggio

si voltava in silenzio, mesto in viso,

e si avviava a seguire la figura

che già ripercorreva quel sentiero,

con il passo frenato dalle bende,

incerta, mite e senza impazienza.

(traduzione di Gilberto Forti)

Orpheus. Eurydike. Hermes

Das war der Seelen wunderliches Bergwerk.

Wie stille Silbererze gingen sie

als Adern durch sein Dunkel. Zwischen Wurzeln

entsprang das Blut, das fortgeht zu den Menschen,

und schwer wie Porphyr sah es aus im Dunkel.

Sonst war nichts Rotes.

Felsen waren da

und wesenlose Wälder. Brücken über Leeres

und jener große graue blinde Teich,

der über seinem fernen Grunde hing

wie Regenhimmel über einer Landschaft.

Und zwischen Wiesen, sanft und voller Langmut,

erschien des einen Weges blasser Streifen,

wie eine lange Bleiche hingelegt.

Und dieses einen Weges kamen sie.

Voran der schlanke Mann im blauen Mantel,

der stumm und ungeduldig vor sich aussah.

Ohne zu kauen fraß sein Schritt den Weg

in großen Bissen; seine Hände hingen

schwer und verschlossen aus dem Fall der Falten

und wußten nicht mehr von der leichten Leier,

die in die Linke eingewachsen war

wie Rosenranken in den Ast des Ölbaums.

Und seine Sinne waren wie entzweit:

Indes der Blick ihm wie ein Hund vorauslief,

umkehrte, kam und immer wieder weit

und wartend an der nächsten Wendung stand, –

blieb sein Gehör wie ein Geruch zurück.

Manchmal erschien es ihm als reichte es

bis an das Gehen jener beiden andern,

die folgen sollten diesen ganzen Aufstieg.

Dann wieder wars nur seines Steigens Nachklang

und seines Mantels Wind was hinter ihm war.

Er aber sagte sich, sie kämen doch;

sagte es laut und hörte sich verhallen.

Sie kämen doch, nur wärens zwei

die furchtbar leise gingen. Dürfte er

sich einmal wenden (wäre das Zurückschaun

nicht die Zersetzung dieses ganzen Werkes,

das erst vollbracht wird), müßte er sie sehen,

die beiden Leisen,die ihm schweigend nachgehn:

Den Gott des Ganges und der weiten Botschaft,

die Reisehaube über hellen Augen,

den schlanken Stab hertragend vor dem Leibe

und flügelschlagend an den Fußgelenken;

und seiner linken Hand gegeben: sie.

Die So-geliebte, daß aus einer Leier

mehr Klage kam als je aus Klagefrauen;

daß eine Welt aus Klage ward, in der

alles noch einmal da war: Wald und Tal

und Weg und Ortschaft, Feld und Fluß und Tier;

und daß um diese Klage-Welt, ganz so

wie um die andre Erde, eine Sonne

und ein gestirnter stiller Himmel ging,

ein Klage-Himmel mit entstellten Sternen – :

Diese So-geliebte.

Sie aber ging an jenes Gottes Hand,

den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,

unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Sie war in sich, wie Eine hoher Hoffnung,

und dachte nicht des Mannes der voranging,

und nicht des Weges, der ins Leben aufstieg.

Sie war in sich. Und ihr Gestorbensein

erfüllte sie wie Fülle.

Wie eine Frucht von Süßigkeit und Dunkel,

so war sie voll von ihrem großen Tode,

der also neu war, daß sie nichts begriff.

Sie war in einem neuen Mädchentum

und unberührbar; ihr Geschlecht war zu

wie eine junge Blume gegen Abend,

und ihre Hände waren der Vermählung

so sehr entwöhnt, daß selbst des leichten Gottes

unendlich leise, leitende Berührung

sie kränkte wie zu sehr Vertraulichkeit.

Sie war schon nicht mehr diese blonde Frau,

die in des Dichters Liedern manchmal anklang,

nicht mehr des breiten Bettes Duft und Eiland

und jenes Mannes Eigentum nicht mehr.

Sie war schon aufgelöst wie langes Haar

und hingegeben wie gefallner Regen

und ausgeteilt wie hundertfacher Vorrat.

Sie war schon Wurzel.

Und als plötzlich jäh

der Gott sie anhielt und mit Schmerz im Ausruf

die Worte sprach: Er hat sich umgewendet -,

begriff sie nichts und sagte leise: Wer?

Fern aber, dunkel vor dem klaren Ausgang,

stand irgend jemand, dessen Angesicht

nicht zu erkennen war. Er stand und sah,

wie auf dem Streifen eines Wiesenpfades

mit trauervollem Blick der Gott der Botschaft

sich schweigend wandte, der Gestalt zu folgen,

die schon zurückging dieses selben Weges

den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,

unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Rainer Maria Rilke

(1904; da Nuove poesie)

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