‘Notizie di poesia’. Ottobre, il post del mese (con i vostri commenti)

Firenze, 30 ottobre 2020 – Vince un classico indiscusso del Parnaso mondiale, beniamino da sempre del nostro blog: Rainer Maria Rilke. E vince con una sua composizione poetica strepitosa come il poemetto Orfeo, Euridice, Ermes, un vero, ispiratissimo gioello capace di coniugare con forbita eleganza ed estrema naturalezza, all’insegna di un mito rivisitato, l’antico e […]

Firenze, 30 ottobre 2020 – Vince un classico indiscusso del Parnaso mondiale, beniamino da sempre del nostro blog: Rainer Maria Rilke. E vince con una sua composizione poetica strepitosa come il poemetto Orfeo, Euridice, Ermes, un vero, ispiratissimo gioello capace di coniugare con forbita eleganza ed estrema naturalezza, all’insegna di un mito rivisitato, l’antico e il moderno (Orfeo, Euridice, Ermes. Rainer Maria Rilke).

Medaglia d’argento a Eugenio Montale con i suoi celeberrimi, quotidiani e luminosi limoni, tratti dalla sua prima raccolta Ossi di seppia (I limoni di Montale). Ex aequo al terzo posto del podio, infine, con due poeti toscani: la primonovecentesca Dina Ferri, riscoperta con il suo bellissimo Quaderno del nulla (ora corredato di altri suoi testi finora ignoti), e il bravissimo, contemporaneo Giacomo Trinci, autore di un componimento di indubbio fascino, che ci riporta a quello che ci appare ad ogni rilettura un canzoniere per la madre tra i più alti della nostra poesia novecentesca – Senza altro pensiero, degno di stare al fianco dei versi superlativi analogamente dedicati di Caproni e di Pasolini (rispettivamente Auguri a Dina Ferri e Auguri a Giacomo Trinci).

Tra i vostri commenti dedicati allo straordinario poemetto di Rilke segnaliamo quelli di Maria Grazia Ferraris, Elisabetta Biondi della Sdriscia e Giacomo Trinci, medaglia di bronzo, quest’ultimo, nella nostra classifica ottobrina assieme a Dina Ferri. Eccoli, nell’ordine: “Il mito di Orfeo e Euridice è fondativo della storia della cultura occidentale: pone una molteplicità di questioni che sono particolarmente significative dal punto di vista speculativo: la poesia, il canto, la ricerca, il limite, l’amore, la morte… il mito e il logos… L’antefatto narrativo è noto: Orfeo è riuscito ad ammansire le divinità infernali col suo canto, e ad ottenere quindi che esse consentano il ritorno di Euridice, alla condizione che egli non si volti a guardare la sposa prima di essere uscito dall’Ade. Con Ermes intraprendono il cammino di ritorno – un cammino silenzioso, ripido, oscuro, difficile, aspro –, e proprio quando sono in prossimità della conclusione di questo viaggio accade l’irreparabile: Orfeo si volse a guardare la sua diletta Euridice. La trasgressione del patto stipulato con Plutone e Proserpina è compiuta. Perché? Molte le interpretazioni e risposte significative, come quella di Cesare Pavese: ‘Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora’. Un calcolo consapevole. La felicità richiede troppa responsabilità. Così per Rainer Maria Rilke. Euridice risale … ‘raccolta in sè e come trasognata, / non pensava a colui che le era innanzi,/ nè alla strada su verso la vita. / Era raccolta in sè, e la impregnava / il suo stato di morte. …Era già sciolta come una lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra, /e diversa come retaggio in cento./ Ella era già radice’ ‘E i suoi sensi sembravano divisi’. E Orfeo capì e si voltò. ‘E quando il dio bruscamente / fermatala, con voce di dolore esclamò: / Si è voltato / -, lei non capì e in un soffio chiese: Chi?’. Orfeo, irriconoscibile, è uscito dal mito. L’inferno è il mondo del fuori, del suono, del rumore, della superficie, contro cui i nostri sforzi nulla valgono, che ci ha derubato dei sogni, dell’amore, della vita. Gli dei dell’aria rarefatta hanno dato ‘tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta’. Ecco perché è eterno il mito di Orfeo ed Euridice”; “Un capolavoro assoluto: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella ‘strada su verso la vita’ si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è ‘un mondo di lamento’ che non può raggiungere la donna, ‘Lei tanto amata’, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall”uscita chiara’. Poesia sublime, che ci consegna l’incolmabile abisso che separa i vivi dai morti; “Un testo che incute tremore e timore: per il modo come viene musicato uno dei temi, degli spartiti più delicati e difficili dell’operare umano: quello del rapporto vita-morte, del loro reciproco chiamarsi ed escludersi. Il tutto, cantato con quella misura superba del metro che tutto misura, contiene. La traduzione di Gilberto Forti dona il senso pieno di un canto teso alla restituzione di un mondo perduto, a cui la tessitura dell’endecasillabo italiano fornisce testimonianza e lucentezza. Ascoltiamone, con attenzione, il fraseggio”.

A domani con nuovi autori e nuovi testi!

Marco Marchi

Orfeo, Euridice, Ermes. Rainer Maria Rilke

VEDI I VIDEO “Orfeo. Euridice. Ermes”“Orpheus. Eurydike. Hermes” ,“J’ai perdue mon Eurydice” di Gluck cantata da Maria Callas“Euridice” di Roberto Vecchioni , “Esperienza della morte”

Firenze, 9 ottobre 2020

Orfeo. Euridice. Ermes

Era l’arcana miniera delle anime.

Esse per quella tenebra vagavano,

mute vene d’argento. Tra radici

sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,

e greve come porfido sembrava

in quel buio. Di rosso altro non v’era.

V’erano rocce,

boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto

e quello stagno grande, grigio, cieco

che incombeva sul suo letto remoto

come cielo piovoso su un paesaggio.

E la striscia dell’unico sentiero,

scialba tra prati, facile e paziente,

pareva lino steso a imbiancare.

Per quell’unica via i tre venivano.

Primo, nel manto azzurro, l’uomo snello,

muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.

Il suo passo ingoiava il sentiero

a grandi morsi, senza masticare;

dalle pieghe cadenti gli pendevano

le mani, grevi e serrate, ormai

dimentiche di quella lieve lira

che sulla sua sinistra era cresciuta

come tralci di rosa sull’ulivo.

E i suoi sensi sembravano divisi:

l’occhio correva avanti come un cane,

si voltava, tornava e ripartiva

e aspettava lontano, a ogni curva,

ma l’udito indugiava come l’odore.

Talvolta a lui pareva che intralciasse

il passo agli altri due che dovevano

seguirlo su per tutta la salita.

Allora dietro solo l’eco

dei suoi passi e il vento nel mantello.

Ma diceva a se stesso che venivano,

e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.

Sì, venivano infatti, ma entrambi

avevano il piede troppo lieve.

Se si fosse voltato (e non poteva,

poichè un solo sguardo frantumava

tutta l’impresa da portare a termine),

li avrebbe visti, i due dal piede lieve,

camminare in silenzio alle sue spalle:

il dio del moto e dell’ampio messaggio,

con il casco sugli occhi luminosi,

l’agile verga tesa innanzi al corpo,

le ali oscillanti intorno alle caviglie;

e nella sua sinistra, in pegno, lei.

Lei, tanto amata che una sola lira

levò lamento più che mai le prefiche;

e sorse un mondo di lamento in cui

tutto ricompariva: bosco e valle,

strada e paese, campo e fiume e bestie;

e intorno a questo mondo di lamento,

così come intorno all’altra terra,

un sole si volgeva, e tutto un cielo

pieno di stelle, silenzioso, un cielo

di lamento con stelle sfigurate-:

lei, tanto amata.

Ma, tenuta per mano da quel dio,

con il passo frenato dalle lunghe

bende funebri, ella camminava

incerta, mite e senza impazienza.

Raccolta in sè e come trasognata,

non pensava a colui che le era innanzi,

nè alla strada su verso la vita.

Era raccolta in sè, e la impregnava

il suo stato di morte.

Se un frutto è pegno di dolcezza e d’ombra,

quella sua grande morte colmava,

così nuova che nulla lei coglieva.

A una verginità nuova era giunta,

e intangibile; il suo sesso era chiuso

come un giovane fiore verso sera,

e le sue mani così disavezze

alla vita nuziale che persino

il contatto di quell’esile dio

tanto lieve e gentile nel condurla,

la turbava per troppa confidenza.

Ormai non era quella donna bionda

che si udiva nei canti del poeta,

non più il profumo e l’isola del talamo,

nè più era il possesso dell’uomo.

Era già sciolta come una lunga chioma

e già dispersa come pioggia in terra,

e diversa come retaggio in cento.

Ella era già radice.

E quando all’improvviso

il dio la fermò e con dolore

pronunciò le parole: Si è voltato!-,

lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma lassù, scuro sull’uscita chiara,

stava qualcuno, irriconoscibile.

Stava e guardava un tratto del sentiero

in mezzo ai prati ove il dio del messaggio

si voltava in silenzio, mesto in viso,

e si avviava a seguire la figura

che già ripercorreva quel sentiero,

con il passo frenato dalle bende,

incerta, mite e senza impazienza.

(traduzione di Gilberto Forti)

Orpheus. Eurydike. Hermes

Das war der Seelen wunderliches Bergwerk.

Wie stille Silbererze gingen sie

als Adern durch sein Dunkel. Zwischen Wurzeln

entsprang das Blut, das fortgeht zu den Menschen,

und schwer wie Porphyr sah es aus im Dunkel.

Sonst war nichts Rotes.

Felsen waren da

und wesenlose Wälder. Brücken über Leeres

und jener große graue blinde Teich,

der über seinem fernen Grunde hing

wie Regenhimmel über einer Landschaft.

Und zwischen Wiesen, sanft und voller Langmut,

erschien des einen Weges blasser Streifen,

wie eine lange Bleiche hingelegt.

Und dieses einen Weges kamen sie.

Voran der schlanke Mann im blauen Mantel,

der stumm und ungeduldig vor sich aussah.

Ohne zu kauen fraß sein Schritt den Weg

in großen Bissen; seine Hände hingen

schwer und verschlossen aus dem Fall der Falten

und wußten nicht mehr von der leichten Leier,

die in die Linke eingewachsen war

wie Rosenranken in den Ast des Ölbaums.

Und seine Sinne waren wie entzweit:

Indes der Blick ihm wie ein Hund vorauslief,

umkehrte, kam und immer wieder weit

und wartend an der nächsten Wendung stand, –

blieb sein Gehör wie ein Geruch zurück.

Manchmal erschien es ihm als reichte es

bis an das Gehen jener beiden andern,

die folgen sollten diesen ganzen Aufstieg.

Dann wieder wars nur seines Steigens Nachklang

und seines Mantels Wind was hinter ihm war.

Er aber sagte sich, sie kämen doch;

sagte es laut und hörte sich verhallen.

Sie kämen doch, nur wärens zwei

die furchtbar leise gingen. Dürfte er

sich einmal wenden (wäre das Zurückschaun

nicht die Zersetzung dieses ganzen Werkes,

das erst vollbracht wird), müßte er sie sehen,

die beiden Leisen,die ihm schweigend nachgehn:

Den Gott des Ganges und der weiten Botschaft,

die Reisehaube über hellen Augen,

den schlanken Stab hertragend vor dem Leibe

und flügelschlagend an den Fußgelenken;

und seiner linken Hand gegeben: sie.

Die So-geliebte, daß aus einer Leier

mehr Klage kam als je aus Klagefrauen;

daß eine Welt aus Klage ward, in der

alles noch einmal da war: Wald und Tal

und Weg und Ortschaft, Feld und Fluß und Tier;

und daß um diese Klage-Welt, ganz so

wie um die andre Erde, eine Sonne

und ein gestirnter stiller Himmel ging,

ein Klage-Himmel mit entstellten Sternen – :

Diese So-geliebte.

Sie aber ging an jenes Gottes Hand,

den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,

unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Sie war in sich, wie Eine hoher Hoffnung,

und dachte nicht des Mannes der voranging,

und nicht des Weges, der ins Leben aufstieg.

Sie war in sich. Und ihr Gestorbensein

erfüllte sie wie Fülle.

Wie eine Frucht von Süßigkeit und Dunkel,

so war sie voll von ihrem großen Tode,

der also neu war, daß sie nichts begriff.

Sie war in einem neuen Mädchentum

und unberührbar; ihr Geschlecht war zu

wie eine junge Blume gegen Abend,

und ihre Hände waren der Vermählung

so sehr entwöhnt, daß selbst des leichten Gottes

unendlich leise, leitende Berührung

sie kränkte wie zu sehr Vertraulichkeit.

Sie war schon nicht mehr diese blonde Frau,

die in des Dichters Liedern manchmal anklang,

nicht mehr des breiten Bettes Duft und Eiland

und jenes Mannes Eigentum nicht mehr.

Sie war schon aufgelöst wie langes Haar

und hingegeben wie gefallner Regen

und ausgeteilt wie hundertfacher Vorrat.

Sie war schon Wurzel.

Und als plötzlich jäh

der Gott sie anhielt und mit Schmerz im Ausruf

die Worte sprach: Er hat sich umgewendet -,

begriff sie nichts und sagte leise: Wer?

Fern aber, dunkel vor dem klaren Ausgang,

stand irgend jemand, dessen Angesicht

nicht zu erkennen war. Er stand und sah,

wie auf dem Streifen eines Wiesenpfades

mit trauervollem Blick der Gott der Botschaft

sich schweigend wandte, der Gestalt zu folgen,

die schon zurückging dieses selben Weges

den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,

unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Rainer Maria Rilke

(1904; da “Nuove poesie”)

I VOSTRI COMMENTI

Antonietta Puri

Scrittura intensa ed emozionante quella di Rilke nei “Sonetti a Orfeo”. Qui il poeta si commisura con il mito di Orfeo, nel tentativo di superare la caducità della vita, la consapevolezza della morte e l’umana fragilità di fronte ad essa, con l’irrompere della potenza salvifica del canto – che lo stesso Orfeo incarna – che è il sottofondo di una sacralità incontaminata, più forte persino della morte. Il presente sonetto tocca il culmine del ben noto mito. Come sappiamo, Orfeo aveva sposato Euridice e quando questa morì per il morso di un serpente, scese nell’Ade, sperando di riportarla in vita. Affascinati dalla sua musica, e dopo aver visto le Eumenidi dai capelli intrecciati di livide serpi intenerite dal suo canto e le tre bocche spalancate di Cerbero ammutolite, Plutone e Persefone concessero al divino cantore di riportare la moglie sulla terra, avvertendolo però di non voltarsi indietro a guardarla, fino al loro arrivo nel mondo dei vivi: Orfeo non resistette e si voltò ed Ermes, lo psicopompo, ricondusse tristemente Euridice nell’Ade. Orfeo che col suono dei suoi canti incantava le dure rocce e che al suono magico della cetra attraeva le piante e le fiere, si fa portavoce del musicista primordiale della Natura, echeggiandone i suoni e offrendole uno specchio sonoro; nel contempo egli apprende dalle bestie una forma di schiettezza d’ingegno, una saggezza che sfiora la santità, nell’osservare le loro menti libere dal brusio dei pensieri e dal susseguirsi infinito delle immagini; anzi, egli si fa maestro agli uomini, invitandoli ad uguagliare il comportamento naturalmente “sapienziale” degli animali. Lo scopo di Rilke, che è quello di Orfeo è quello di restituire all’umanità, tramite il canto e la poesia, il fascino anche di ciò che è caduco e tuttavia permane, di quello che è effimero, eppure è ricco di bellezza, di ciò che è ambiguo e misterioso, ma è da contemplare. Oggi, nella cacofonia dei rumori in cui siamo costretti a vivere, Orfeo non canta più: occorrerebbe ritrovare una dimensione tale da poter cogliere il senso profondo dei nostri sospiri e delle nostre parole. L’uomo che vive in questo stato di armoniosa contemplazione “si stacca” dalla moglie che crede solo nel mondo visibile, come Orfeo, inconsciamente, abbandona Euridice.

Damiano Malabaila

Secondo me, un Rilke al suo massimo splendore: maturo e controllato nelle esplosioni della fantasia; leggero e maestoso insieme; lirico e miracolosamente melodico (la lingua si fa musica), ma allo stesso tempo narrativo e non troppo enfatico. Da ricordare anche la splendida, impetuosamente giovanile traduzione di Giaime Pintor.

Maria Grazia Ferraris

Il mito di Orfeo e Euridice è fondativo della storia della cultura occidentale: pone una molteplicità di questioni che sono particolarmente significative dal punto di vista speculativo: la poesia, il canto, la ricerca, il limite, l’amore, la morte… il mito e il logos… L’antefatto narrativo è noto: Orfeo è riuscito ad ammansire le divinità infernali col suo canto, e ad ottenere quindi che esse consentano il ritorno di Euridice, alla condizione che egli non si volti a guardare la sposa prima di essere uscito dall’Ade. Con Ermes intraprendono il cammino di ritorno – un cammino silenzioso, ripido, oscuro, difficile, aspro -, e proprio quando sono in prossimità della conclusione di questo viaggio accade l’irreparabile: Orfeo si volse a guardare la sua diletta Euridice. La trasgressione del patto stipulato con Plutone e Proserpina è compiuta. Perché? Molte le interpretazioni e risposte significative, come quella di Cesare Pavese: ‘Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora?”. Un calcolo consapevole. La felicità richiede troppa responsabilità. Così per Rainer Maria Rilke. Euridice risale… “raccolta in sè e come trasognata,/ non pensava a colui che le era innanzi,/ nè alla strada su verso la vita./ Era raccolta in sè, e la impregnava/ il suo stato di morte. …Era già sciolta come una lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra,/e diversa come retaggio in cento./ Ella era già radice.” “E i suoi sensi sembravano divisi”. E Orfeo capì e si voltò. “E quando il dio bruscamente/ fermatala, con voce di dolore esclamò:/ Si è voltato/ -, lei non capì e in un soffio chiese: Chi?” . Orfeo, irriconoscibile, è uscito dal mito. L’inferno è il mondo del fuori, del suono, del rumore, della superficie, contro cui i nostri sforzi nulla valgono, che ci ha derubato dei sogni, dell’amore, della vita. Gli dei dell’aria rarefatta hanno dato «tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta»”. Ecco perché è eterno il mito di Orfeo ed Euridice.

Paolo Parrini

Ogni lettore che si avvicini a questa immensa opera rimane colpito e catturato dai due piani su cui si svolge il racconto del viaggio di Orfeo negli inferi. Da un lato lui, impaziente col suo drappo azzurro che sventola, col passo aggressivo, con l’ansia di portare a compimento la sua missione, dall’altra Euridice, che pare trasfigurata. Il suo “sesso chiuso come un giovane fiore verso sera”, ella è impregnata dal suo stato di morte e non sembra più quella che Orfeo cerca per tornare con lei nel mondo dei vivi. Appare questo sfasamento tra il tangibile, e l’oltre, tra la vita e la morte. In fondo nulla sappiamo, dice Rilke stesso nella sublime poesia “Esperienza della morte”, nulla sappiamo della morte stessa che quando giunge ci annulla e conclude la nostra coscienza terrena. Euridice resta per Orfeo un mistero, e quando dopo che egli si è voltato deve tornare nel regno dei morti, lo fa con una sorta di quiete interiore, mite e senza impazienza. Mai ricerca fu più tragica, appassionata, e insieme vacua, perché legata a parametri terreni, quando invece per sfiorare Euridice occorreva semmai la mano di un Dio.

Roberta MaestrelliBerti

Lui, impaziente per amore, vorrebbe vincere la morte. Ma a Lei non interessa più la vita terrena e nemmeno l’amore, ora che si abbandonata all’eterno…

tristan51

Un altro capolavoro. Ma in Rilke il capolavoro non è una dimensione inattingibile o una rara eccellenza. La sua opera abbonda di capolavori, fa del capolavoro una regola.

Sabina Candela

Certa, paziente, indifferente, lentamente Euridice… incede, nel silenzioso vuoto della dimensione eterna che la pervade. Incerto, impaziente, ‘differente’, vigorosamente, impetuosamente Orfeo… cede!

Matteo Mazzone

La trascrizione di uno dei più celebri trai miti metastorici si traduce in un canto del lamento, dell’impossibilità melanconica della restituzione: un amore morto che vive nella morte confezionata perché adattata alle vesti dei prigionieri-amanti. Tutto è straordinariamente liricizzato: la cadenza, la giusta ponderazione del segno linguistico trasumana ogni più abietta sensazione di “tristitiam”; è la mitizzazione, la cristallina descrizione di un mito, per cui l’atmosfera che va creandosi è quella paradossale del mito del mito, cui Rilke e la sua poesia ci hanno felicemente abituati. Canto, strumento, tenebra, morte: oggetti e luoghi che ricordano il musico infernale Orfeo, la sua dolorosa esperienza dell’esperibile, che, purtroppo, naufraga per colpa di quella prerogativa troppo umana, dantescamente “folle”: la fretta. Tutto precipita: dalla vita a un’altissima meditazione circa la morte: morte del pensiero, del corpo e dei sensi.

framo

In una lettera bellissima, datata 6 gennaio 1923, Rilke scrive che “la morte si annida così in profondità nell’essenza dell’amore che non la contraddice mai”. Nel suo conclusivo invito laico ad amare generosamente la vita, la morte viene descritta come “la metà della vita stessa che ci volta le spalle”. Proprio ciò che emerge dal meraviglioso testo qui riproposto in lettura. L’elaborazione della perdita dell’amata Euridice, fattasi per l’amante Orfeo interiore radice – di una pianta da frutti in potenziale, ostinato divenire -, si pone al contempo come avvio e approdo di elezione, entro un percorso di faticosa ma necessaria accettazione dell’assenza, che il poeta-uomo, creatura terrena e determinata, “parente dell’albero, del fiore, del campo”, si impegna a non dismettere; animato dalla convinzione che solo giungendo ad amare anche “il proprio più grande terrore” si possa sperare di tenere in vita, coltivandola “negli abissi del proprio cuore”, la presenza, per quanto trasfigurata, di chi ci fu caro e che, come identità individuale esperibile e riconoscibile, nel dominio della realtà fisica non potrà essere mai più. Grandioso.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

Un capolavoro assoluto: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella “strada su verso la vita” si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è “un mondo di lamento” che non può raggiungere la donna, “Lei tanto amata”, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall’”uscita chiara”. Poesia sublime, che ci consegna l’incolmabile abisso che separa i vivi dai morti.

Lorenzo Dini

Il mito di Orfeo ed Euridice è rivissuto nel segno del sesso opposto, ed è attraverso la donna che Rilke sublima quel confronto sul sottile limine fra la vita, amore e morte. Così, tanto risulta drammatico quel “Chi” pronunciato alle soglie dell’Ade, tanto maggiore risulta la distanza, ormai incolmabile, fra le “due cose belle”.

Duccio Mugnai

Potenza ctonia della morte che afferra e dell’amore che disserra. Non c’è solo nella vita la fisicità decadente e peritura, ma molte morti come la perdita di un amore o di un’amicizia. Dopo anni ed anni di lontananza, chi non vorrebbe far riaffiorare la vita perduta, gli antichi amori dal baratro oscuro del tempo? Così è il poeta, sempre in bilico tra suggestioni vitali, liberatorie, almeno solari, se non paradisiache, ed un pianto, che non si arresta, per concretizzazioni esperienziali, ormai dolorose, perse nel buio dell’enigma e della fragile condizione umana. Guardare sempre alla vita, perché cercare gioie morte e sepolte, significa perderla del tutto.

Giacomo Trinci

Un testo che incute tremore e timore: per il modo come viene musicato uno dei temi, degli spartiti più delicati e difficili dell’operare umano: quello del rapporto vita-morte, del loro reciproco chiamarsi ed escludersi. Il tutto, cantato con quella misura superba del metro che tutto misura, contiene. La traduzione di Gilberto Forti dona il senso pieno di un canto teso alla restituzione di un mondo perduto, a cui la tessitura dell’endecasillabo italiano fornisce testimonianza e lucentezza. Ascoltiamone, con attenzione, il fraseggio.

Chiara Scidone

Una descrizione degli inferi molto dettagliata, un Orfeo che cammina muto e impaziente di riavere la sua amata, sapendo di averla a pochi passi. Ma ormai lei è diventata parte integrante degli inferi, così tanto che quando lui si gira, non lo riconosce. La morte ha vinto di nuovo, purtroppo per l’ennesima volta ha avuto la meglio sulla vita.

Daniela Del Monaco

Virgilio in primis e poi autori come Pavese, Vecchioni si sono soffermati sullo sguardo di Orfeo e sul perché si sia voltato, pur sapendo a quale conseguenza sarebbe andato incontro. Rilke, invece, offre una diversa prospettiva, quella di Euridice. La giovane sposa di Orfeo procede “incerta, mite e senza impazienza” la strada che porta “su verso la vita”. A differenza dell’uomo, Euridice non è di passaggio nella dimensione abissale degli Inferi, anzi, ormai ne fa concretamente parte, ne è “radice”. Non le interessa più tornare a vivere, ad amare perché la sua vita l’ha già vissuta. Per questo sembra non comprendere le parole di Ermes che le rivelano che Orfeo non ha mantenuto fede alla promessa e, quasi indifferente, anche lei si volta indietro per tornare eternamente nella “miniera delle anime”.

Maria Antonietta Rauti

Forte l’immanenza di Rilke tra i suoi splendidi versi che dipingono con pennellate leggere immagini della miniera delle anime che non può non riportare alla mente Dante e la Divina Commedia… Presenze che sono sopraffatte da un cielo di lamento con stelle sfigurate, qui la magia delle parole ben accostate dal Poeta arrivano a proporre un teatro perfetto in ogni sua componente

Giulia Bagnoli

Il canto, l’amore e il tradimento del patto. Orfeo ha osato sfidare la morte e la sua mancanza di fiducia è l’inizio della dannazione. Euridice rimarrà per sempre lì, nell’ombra, forse desiderando di nuovo la luce, la vita, ma senza ricordi. La morte vera è proprio nell’assenza di memoria.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

Rileggendo questo straordinario poemetto mi colpiscono i versi che descrivono il cammino a ritroso di Euridice sul sentiero che porta alla vita: “e sorse un mondo di lamento in cui tutto ricompariva: bosco e valle, strada e paese, campo e fiume e paese…”. Mi sono venuti in mente i versi di Montale di Forse un mattino andando e mi sono chiesta se lui e Sbarbaro a cui si era ispirato avessero letto questo splendido poemetto di Rilke.

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