‘Notizie di poesia’. Marzo, il post del mese (Tozzi ex aequo, con i vostri commenti)

Firenze, 31 marzo 2022 – Vincono questo mese, alla pari, Federigo Tozzi e Pier Paolo Pasolini. Tozzi conquista il gradino più alto del podio con un post dedicato a una delle più belle pagine di uno dei suoi libri più belli, Bestie, che ha saputo raccogliere un considerevole numero di commenti e apprezzamenti (L’anima e […]

Firenze, 31 marzo 2022 Vincono questo mese, alla pari, Federigo Tozzi e Pier Paolo Pasolini. Tozzi conquista il gradino più alto del podio con un post dedicato a una delle più belle pagine di uno dei suoi libri più belli, Bestie, che ha saputo raccogliere un considerevole numero di commenti e apprezzamenti (L’anima e le bestie. Federigo Tozzi, che ripubblichiamo oggi). Pasolini ha fatto altrettanto con un post incentrato su una sua poesia di forte ispirazione civile tratta da La religione del mio tempo (Alla mia nazione. Pier Paolo Pasolini, che ieri abbiamo ripubblicato con i vostri commenti). Si aggiudicano invece l’argento, di nuovo con un ex aequo talmente numeroso da includere in sé anche il bronzo, ben quattro poeti: Sibilla Aleramo e Gabriele d’Annunzio, rispettivamente con 8 Marzo con Sibilla Aleramo e Le fresche parole della sera. Gabriele d’Annunzio e, ancora pari merito, un fuoriclasse americano del Parnaso mondiale come Walt Whitman, il Bardo di Foglie d’erba (Essere natura. Walt Whitman), e il grande Mario Luzi in abbinamento artistico con il bravissimo incisore materano Pietro Paolo Tarasco (Le umili meraviglie. Luzi secondo Tarasco). Una bella schiera di qualificatissimi autori, con Pasolini e Tozzi in testa, che fa onore al nostro blog e alle vostre sensibili antenne di lettori di poesia ormai espertissimi!

Centrati, articolati e acuti come sempre i vostri commenti, anche quelli stavolta su un prosatore come il grande Federigo Tozzi. Tra essi segnaliamo quelli di Antonietta Puri, Isola Difederigo e tristan51. Rispettivamente: “‘Bestie’, un piccolo capolavoro, per me di grande bellezza e spessore di uno scrittore che, ignaro e senza pretese, si allineò con i Grandi che, senza comunicarselo, stavano compiendo una rivoluzione nel mondo dell’arte. Un libretto affascinante, indimenticabile e suggestivo in cui Tozzi, attraverso i sentieri occulti della sua natura torbida e complicata, trasforma la realtà quotidiana in qualcosa di allucinato ed arcano (come non pensare a Kafka?) e così ci narra e ci riferisce di immagini naturali, di improvvisi trasalimenti e di cupe inquietudini che, incrociandosi e richiamandosi continuamente, formano un tessuto dai colori cangianti fra sensualità e misticismo, tra delicatezza e violenza, tra desiderio di slanci e disgusto inenarrabile, in cui la realtà appare nebulosa ed imprecisa. Si avverte nell’opera la coscienza di un disgregamento spirituale e la volontà di un ricongiungimento. Le bestie di Tozzi portano alla luce e materializzano i disagi e quel magma di inconsapevoli zavorre che pesano sul nostro spirito, pulsioni ed attitudini insospettate: ed ecco che il rospo di questo frammento ci parla della grettezza, della crudeltà gratuita, senza motivo e senza pietà che può covare dentro una mente, non dentro un’anima, perché anima non c’è. E così, tanti altri animali del bestiario tozziano ci parlano del senso della solitudine, della desolazione, del non essere compresi e dell’offesa che ne deriva, del desiderio di fuggire dal male e dalla consapevolezza di non poterlo fare perché il male è in noi, della nostra irresolutezza e dell’incapacità di agire, del fallimento di certe nostre velleità e soprattutto dell’assenza della redenzione (pensiamo al crocifisso svuotato dai tarli e dei disegni informi dell’acqua sul pavimento polveroso…). Ma poi c’è quella visione metafisica del paesaggio, l’idea di un settentrione e del turchino che rimanda all’infinito e all’assoluto, anche se questo slancio non porta mai al contatto con Dio. Nel suo linguaggio puro ed essenziale, Tozzi manifesta un indiscusso afflato lirico che, partendo dall’approccio naturalistico, ne trascende ogni limite e lo trasfigura, fino a raggiungere livelli davvero alti.”; “L’animalismo di Tozzi, quale si profila anche per via di acquisizioni letterarie e scientifiche sulla scorta di quella prima intuizione estetica ‘Gli uomini sono nati dalle bestie” (‘Paolo’) annullatrice di distanze – preannunciata dallo sfogo autobiografico della lettera di ‘Novale’ del 15 settembre 1907, che fa stimare gli uomini ‘affini alle bestie’, ‘un pezzo di carnaccia con le budella sudicie dentro’, e invocare per sé la metamorfosi in ‘uno stocco di granturco’ -, si disloca all’interno della pagina in un vastissimo campionario di disumanità che vede gli animali protagonisti alla stregua degli uomini, competitivi con essi nel fornire esempi di crudeltà o più spesso loro vittime, e nel parallelo affiorare di un subumano che conserva fattezze bestiali, impronta dell’antica origine. In questa prosa di ‘Bestie’ l’autore propone una casistica di come si uccidono i rospi al modo di un narratore realista; con un più di accanimento espressionistico nella resa scrupolosamente analitica di particolari repellenti che richiama alle immagini dei rospi tante volte effigiati e suppliziati sulla carta da un artista a Tozzi fraterno, l’amico Lorenzo Viani.”; “Ma come si fa a non capire la grandezza di Tozzi, la sua capacità di incidere così profondamente nell’anima e nella mente di chi legge le sue pagine, alcune delle quali davvero indimenticabili, come quella proposta oggi. Federigo Tozzi è un autore ‘difficile’, senz’altro al di sotto del suo valore presso il grande pubblico, soprattutto perché è un intransigente pessimista, novecentescamente debitore della lezione di Leopardi. Scrittore senza consolazioni, Tozzi invita da scrittore moderno, come Svevo e come Pirandello, all’attraversamento e all’interrogazione del ‘non senso’ della nostra esistenza, Tuttavia, a differenza dei suoi straordinari compagni di strada, Tozzi rifiuta qualsiasi instaurabile complicità fra autore e lettore. Amaro come Svevo e ineccepibile come Pirandello, Tozzi non ci fa mai sentire intelligenti e non consente mai forme di ironia, ma si limita a mostrarci come in realtà stanno (come in realtà inesplicabilmente, tragicamente e assurdamente stanno) le cose della vita. E questo piace poco.”.

Ma belli e segnalabili anche i commenti di Duccio Mugnai e framo: “Mi ricordo la prima volta che lessi questa prosa di ‘Bestie’. Ne rimasi fortemente impressionato per la violenza lucida, sadica e realistica, che vi veniva rappresentata. Migliorini, inoltre, è veramente figura dai tratti e dagli atteggiamenti demonici. Dalla banalità dell’ignoranza e della vita stessa nasce la violenza, come una lebbra, un male orribile che affiora in superficie dalle profondità dell’essere umano. Ed il personaggio protagonista è in balìa di questa violenza, impossibilitato a capire o a fuggire da un mondo che è già incubo per lui e la cui rappresentazione richiama ossessivamente la figura del padre, alla quale, per impotenza masochistica, non si può sottrarre. Così all’associazionismo jamesiano, attraverso cui Tozzi proietta nelle ‘bestie’ le sue più disparate condizioni e mutazioni psicologiche, adesso io aggiungo anche il taglio narrativo e feroce di Dostoevskij. I rospi, di cui le ‘sulfuree’, demoniche, dantesche figure dei contadini fanno strage, ricordano le pene infernali della ‘Divina Commedia’, i nodi scorsoi, a cui Tozzi attacca la sua vita, le pene della sua psiche, della sua anima martoriata. Così, la grandezza ‘crudele’ della sua scrittura mi appare sempre nuova ad ogni lettura, sempre più codificante stimoli, stilemi e modelli culturali e letterari, sempre nuovi e più complessi.”; “Voci tremanti pullulano al ‘diaccio’ montante di questa sera cupa e silenziosa, che si consuma all’ombra sempre piu lunga di un mesto viottolo. Trema la voce del rospo moribondo per la cicca ficcata in gola.Trema la voce dell’uomo-scrittore al verso tremulo – all’apparenza rassicurante – dei rospi vivi, suoi simili, avvertiti per tutto il fosso; lo fa al ricordo di quelli visti morti, trucemente uccisi. E non meno trema l’uomo-lettore che, con ‘occhi che di notte luccicano’, lungo il sentiero solitario e tortuoso di ogni vita, da vittima si scopre a buttar giù più di un rospo, ripensando anche ai tanti che ha dovuto e che si troverà costretto ad ingoiare. Grande Tozzi.”.

Buona lettura o rilettura del nostro vincitore di marzo, e a domani con nuovi post, nuovi autori e nuovi testi!

Marco Marchi

L’anima e le bestie. Federigo Tozzi

VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , Da “Bestie” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , Passeggiata tozziana , Un testo scenico: “Nel paese di mio padre”

Firenze, 22 marzo 2021 – Ricordando che ieri ricorreva il centunesimo anniversario della morte di Federigo Tozzi (Roma, 21 marzo 1920) e segnalando che è di nuovo in libreria la storica edizione delle Novelle di Federigo Tozzi edita nella Bur da Rizzoli, a cura di Glauco Tozzi, con un saggio introduttivo di Luigi Baldacci e una nota all’edizione di Marco Marchi.

Nelle prose di Bestie Tozzi torna di continuo a proiettare la sua anima su quanto lo circonda, tenta per via di una parola che nomina la fuoriuscita dai cunicoli oscuri in cui essa, dubitando persino di esistere, si dibatte, alla ricerca di  “parentele”. E fin dall’inizio del libro, in sintonia con la natura e in corrispondenza delle sue apparizioni, Tozzi invoca la libertà, la fuoriuscita dalla solitudine, la dolcezza, un anelato ricongiungimento benevolo. Gli sguardi di un’anima già definita a quell’altezza “piena di occhi chiusi” s’indirizzano preferenzialmente verso normalizzati scenari naturali, soprattutto campestri, e ognuna delle bestie chiamate a raccolta sarà, secondo l’associazionismo di William James, il segno materializzato di un proprio disagio e, insieme, di una propria conoscenza: una sorta di dislocazione rintracciata e a suo modo rivelante di quel che di non saputo l’io porta con sé, del suo inquietante impasto (raffigurato in Barche capovolte per via biblico-animale ma di sostanza freudiana) di “buca di scorpioni” e “nido di usignoli”, di “bisbigli” e “code paurose”.

All’insegna di modi di essere, il dentro e il fuori annullano demarcazioni di territorio: tutto sarà estasi o incubo, secondo una comportamentistica che alterna il negativo e il positivo come esemplarmente accade fin dall’inizio delle prose di Fonti, dove alla fonte nella quale si sarebbe seriamente tentati di uccidersi, stante la propria tragica e solitaria scontentezza, fa immediatamente riscontro una magica fonte “quasi coperta dalle rose”, luccicante, odorosa e tepida, che incoraggia nel suo concentrato e sinestetico trionfo di vita che tutti sensi investe ad una oppositiva offerta all’insegna della comunicazione e dell’amore.

Ed è proprio così che il “pozzo dell’anima” psicologicamente indagato negli aforismi di Barche capovolte riprende in Bestie a parlare, a riportare alla superficie parte della sua acqua, a scandire preliminarmente nell’ambito dei ricordi una natura coincidente con il “sogno immenso” dell’anima e la dialettizzazione al negativo di quella concordanza irremeabile: “Mi ricorderò sempre dei bei prati verdi che cominciavano dalla mia anima e da’ miei piedi, e finivano quasi all’orizzonte. […] Io avevo in mente di trovare alberi, ed alberi erano da per tutto. Ma quel cielo, tutto turchino uguale, che mi pareva fossesi chiuso soltanto pochi momenti innanzi che io arrivassi, mi metteva un rimpianto di sogni”. Il naturalistico “cielo di Siena” si fa “cattivo”, veicolando memorie dolorose di oppressione, di morte, che schiacciano l’anima: quella stessa anima che sulla scia di un esistenzialismo presto incontrato riconoscerà altre condanne e inaugurerà, nella riconosciuta fratellanza, forme di pietas: “In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima”.

Ma anche la cultura, riverberandosi sulla natura e sulle sue insindacabili leggi che fanno un tutt’uno con il suo compatto e spavaldo esibirsi, partecipa del processo. Se l’“esaltazione mistica” del giovane Tozzi, combinandosi con suggestioni letterarie apprese alla Biblioteca Comunale di Siena, è presto in grado di rianimare tra le mura di San Francesco “l’azzurro del soffitto di una cappella”, anche il Medioevo ricreato trascorre rapidamente da un mondo “sempre più dolce e religioso” ad un agone di combattimenti cruenti, a loro volta interiorizzati, destinati a durare secoli. L’anima fruttifica “come un miracolo fatto sopra una vigna” (pure la Bibbia e Santa Caterina antologizzata funzionano), ed è il momento dell’orgoglio che l’apparizione di un topo presto interrompe e crudelmente ridimensiona.

Allo stesso modo, quasi didatticamente, si profilano in Tozzi immagini aeree, lontananze tranquille, spazi immensi, ma anche limiti, chiusure, disappartenenze abitative, cadute. Il cielo e l’anima vorrebbero identificarsi, ma la ribellione continuata di Tozzi ai vincoli pesanti della condizione umana può sostanziarsi ormai solo di una miriade di parallelismi comportamentistici inesplicabili ma di per sé rassicuranti. La scelta è pressoché obbligata: il vivente senz’anima, quel vivente, come ha scritto Giorgio Manganelli, “che l’uomo ha deciso di poter uccidere, straziare, degradare, anneghittire, insultare” e che a ben vedere può offrire a sua volta consolazione e riparo, evitando false speranze, giudizi e disfatte.

La natura, la cultura… In realtà, come si legge in Emerson, il filosofo di Nature conosciuto da Federigo Tozzi: “Appena degeneriamo, diventiamo stranieri alla natura in quanto ci alieniamo da Dio”; mentre, ancora per via di cultura, in un’opera del pragmatista americano William James, saldando di nuovo ricerca scientifica e ricerca religiosa, Tozzi poteva recuperare affermazioni di questo tipo: “Certo, io pensavo, io sono abbandonato da Dio […] ed ero dolente che Dio mi avesse creato Uomo. Gli animali, io benedicevo la loro condizione, poiché essi non posseggono una natura peccatrice, essi non sono invisi a Dio nella sua ira, non sono predestinati alle fiamme infernali dopo la morte. […] io benedicevo ora la condizione del cane e del rospo”. Il lettore di Tozzi ripensa, alla luce di questa citazione di un testo jamesiano letto da Tozzi, Le varie forme della coscienza religiosa, al cane Toppa di “Con gli occhi chiusi” e all’indimenticabile strage dei rospi di una celebre prosa di Bestie che oggi vi proponiamo.

D’altronde, se l’autore del Trionfo della morte, quell’inevitabile Gabriele d’Annunzio molto amato e molto odiato da Tozzi, aveva a suo tempo aspirato scrivendo – parole di Tozzi stesso in versione saggistica – a “un ideal libro di prosa moderno” che “armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero”, che “sembrasse non imitare ma continuare la Natura” e “libero dai vincoli della favola, portasse alfine in sé creata con tutti i mezzi dell’arte letteraria la particolar vita – sensuale sentimentale intellettuale – di un essere umano collocato nel centro della vita universa”, secondo ben altre prospettive, in altre immagini dell’uomo e prima ancora in altre applicazioni dell’esercizio letterario Tozzi avrebbe modernamente individuato il suo unico compito da svolgere: un confronto naturale fattosi esistenziale nel segno del tragico, potentemente necessitato da disagio e da drammatica impossibilità di visioni del mondo.

Nel segno del tragico, appunto, ma fino a questa sicura speranza nutrita, confessata a se stesso fin da ragazzo e non rimasta certo disattesa, se consideriamo che grande scrittore Federigo Tozzi è stato: “come c’è questo pampino, ci sarà il mio libro” (Bestie).

Marco Marchi

da Bestie

Il Migliorini è un uomo che lavora la terra a un tanto il giorno; cambia padrone quasi tutte le stagioni, ed è bravo a potare le viti.

Egli comprò, da un suo amico rigattiere, la Gerusalemme e l’Orlando: dieci volumi di quella carta che pare cencio, e con una piccola figura ogni canto. Quando è l’ora di riposo cava dalla sporta, lasciata a un ramo di qualche pianta, un volume, e lo legge agli altri.

L’anno che lo conobbi, se pioveva entrava dentro una porta vicina al mio podere, dove ci potevano stare a pena in dieci, seduti sopra pezzi di legno secco e avanzi di potature.
L’acqua sgocciolava da per tutto e colando dal tronco di un pesco, nato quasi a traverso l’imbocco, faceva una pozzanghera proprio nel bel mezzo. Ma il Migliorini, con la zappa, scavando un fossetto e alzando un argine con la terra smossa, aveva provveduto in modo che le scarpe non se le bagnavano più. Poi, acceso un poco di fuoco, arrostiva le fette del pane, infilandole ad una frusta che egli girava, tenendo l’Orlando aperto sopra una coscia e stando in ginocchio con l’altra gamba.

Io mi ci sarei indolenzito subito.

Ad ogni ottava, faceva il commento a modo suo, e poi:
- State a sentire com’è bella! Non pare vera?

E batteva le lunghe dita terrose sul libro. Sapeva dire in poche parole la storia di ogni personaggio; e rispondeva a tutte le domande che gli facevano i compagni. Aveva gli orecchi bucati; ma aspettava che morisse un suo zio che gli avrebbe lasciato due anelli d’ottone. Portava i capelli lunghi da dietro, come una ragazza a cui stanno per ricrescere dopo che le sono stati tagliati. Teneva il cappello sopra gli occhi, ed era molto alto. Quando tornava a casa, infilava la sporta al braccio fino al gomito: d’inverno aveva un pastrano turchino; e al cappello, in vece del solito nastro, una trina nera da donna.

Una volta, veduto un rospo, insegnò come si uccidono: si prese di bocca, con un dito, la cicca che biascicava e, messala in cima al coltello, gliela cacciò dentro la gola. Il rospo cominciò a tremare, doventando quasi giallo; apriva e chiudeva gli occhi, che parevano più piccoli e più lucidi. Quando venne il padrone, perché l’ora del desinare era passata, con un calcio tirarono in fondo alla balza la bestia già morta, dove facevano le fosse per le viti. E quando, l’anno passato, ripulirono un gran frontone putrido e verde che pareva una palude, di fianco a un bosco di querci e di castagni, pieno di macigni e di radici nere, cavavano fuori dall’acqua i rospi con una rete fatta con il filo di ferro, per metterli dentro un secchio. Quando il secchio era colmo, aprivano una buca con una vanga; e ve li zeppavano dentro. Poi li ricoprivano di terra; e sopra, dopo averci pigiato con i piedi, lasciavano uno di quei macigni più pesi.

Io andavo da una pianta all’altra senza dir niente, perché sarebbe stato impossibile farli smettere; con il cuore doventato mencio. Ma come mi s’empì la bocca di saliva che pareva bava, quando vidi una rospa che pareva un grande involto! E poi che ella mi guardava con quei suoi occhi di ragazza brutta, forse più acuti dei miei, mi sentii venir male.

Ma due anni fa, dopo il vespro, per tornare a casa, io dovevo camminare lungo un viottolo fatto sul margine di un torrente, scansando a ogni passo i salci e i pioppi. La mia scontentezza cresceva come le ombre; e niente c’era di peggiore della sera diaccia. Le nebbie salivano lungo il torrente, i salci sgocciolavano, con le gocciole che si fermavano un poco in punta alle foglie all’ingiù, i pioppi erano umidi. I poggi s’oscuravano, e le terre lavorate doventavano più nere. A qualche podere vedevo una finestra con il lume. Le chiese avevano già suonato, e i loro echi m’erano parsi di un azzurro così cupo e taciturno come erano taciturni gli usci rossi delle capanne chiuse e le aie deserte.

Siccome la strada era lunga, mi si faceva buio presto; e, se nessuno s’accompagnava con me, camminavo più piano quantunque mi crescesse la fretta d’arrivare. Che tristezza desolante e silenziosa! Qualche volta un rovo, i cui tralci erano stesi in terra, mi si attaccava ai calzoni: prima di distrigarmi, mi approfittavo d’esser stato fermato per sfogare la mia scontentezza guardando l’ombra dietro a me. Ma tutto il torrente era pieno di rospi da dove ero venuto a dove andavo, anche così lontano che gli ultimi a pena s’udivano; e la loro voce che mi pareva tranquilla, ed è invece tremula, mi consolava. Tutti gli altri che avevo veduto morti o agonizzanti ricordavo allora! Quello a cui con una frusta di salcio avevano fatto un nodo scorsoio e l’avevano lasciato lì ciondoloni; quello infilato, dal ventre, a una canna aguzzata: la canna riesciva dalla bocca, e il sangue colava più grosso e scuro; quello a cui avevano schiacciato con i sassi tutte e quattro le zampe; quello accecato con i tizzi della brace; quello sbudellato con un colpo di falcino; quello schiacciato dalle ruote del carro, a posta; quello lanciato in aria dando un colpo sopra una tavoletta messa in bilico; quello pestato dai due fidanzati; questi sono i rospi che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte luccicano.

Federigo Tozzi

(da Bestie, 1917)

I VOSTRI COMMENTI

tristan51

Ma come si fa a non capire la grandezza di Tozzi, la sua capacità di incidere così profondamente nell’anima e nella mente di chi legge le sue pagine, alcune delle quali davvero indimenticabili, come quella proposta oggi…. Federigo Tozzi è un autore “difficile”, senz’altro al di sotto del suo valore presso il grande pubblico, soprattutto perché è un intransigente pessimista, novecentescamente debitore della lezione di Leopardi. Scrittore senza consolazioni, Tozzi invita da scrittore moderno, come Svevo e come Pirandello, all’attraversamento e all’interrogazione del “non senso” della nostra esistenza, Tuttavia, a differenza dei suoi straordinari compagni di strada, Tozzi rifiuta qualsiasi instaurabile complicità fra autore e lettore. Amaro come Svevo e ineccepibile come Pirandello, Tozzi non ci fa mai sentire intelligenti e non consente mai forme di ironia, ma si limita a mostrarci come in realtà stanno (come in realtà inesplicabilmente, tragicamente e assurdamente stanno) le cose della vita. E questo piace poco.

Antonietta Puri

“Bestie”, un piccolo capolavoro, per me di grande bellezza e spessore di uno scrittore che, ignaro e senza pretese, si allineò con i Grandi che, senza comunicarselo, stavano compiendo una rivoluzione nel mondo dell’arte. Un libretto affascinante, indimenticabile e suggestivo in cui Tozzi, attraverso i sentieri occulti della sua natura torbida e complicata, trasforma la realtà quotidiana in qualcosa di allucinato ed arcano (come non pensare a Kafka?) e così ci narra e ci riferisce di immagini naturali, di improvvisi trasalimenti e di cupe inquietudini che, incrociandosi e richiamandosi continuamente, formano un tessuto dai colori cangianti fra sensualità e misticismo, tra delicatezza e violenza, tra desiderio di slanci e disgusto inenarrabile, in cui la realtà appare nebulosa ed imprecisa. Si avverte nell’opera la coscienza di un disgregamento spirituale e la volontà di un ricongiungimento. Le bestie di Tozzi portano alla luce e materializzano i disagi e quel magma di inconsapevoli zavorre che pesano sul nostro spirito, pulsioni ed attitudini insospettate: ed ecco che il rospo di questo frammento ci parla della grettezza, della crudeltà gratuita, senza motivo e senza pietà che può covare dentro una mente, non dentro un’anima, perché anima non c’è. E così, tanti altri animali del bestiario tozziano ci parlano del senso della solitudine, della desolazione, del non essere compresi e dell’offesa che ne deriva, del desiderio di fuggire dal male e dalla consapevolezza di non poterlo fare perché il male è in noi, della nostra irresolutezza e dell’incapacità di agire, del fallimento di certe nostre velleità e soprattutto dell’assenza della redenzione (pensiamo al crocifisso svuotato dai tarli e dei disegni informi dell’acqua sul pavimento polveroso…). Ma poi c’è quella visione metafisica del paesaggio, l’idea di un settentrione e del turchino che rimanda all’infinito e all’assoluto, anche se questo slancio non porta mai al contatto con Dio. Nel suo linguaggio puro ed essenziale, Tozzi manifesta un indiscusso afflato lirico che, partendo dall’approccio naturalistico, ne trascende ogni limite e lo trasfigura, fino a raggiungere livelli davvero alti.

framo

Voci tremanti pullulano al “diaccio” montante di questa sera cupa e silenziosa, che si consuma all’ombra sempre piu lunga di un mesto viottolo. Trema la voce del rospo moribondo per la cicca ficcata in gola.Trema la voce dell’uomo-scrittore al verso tremulo – all’apparenza rassicurante – dei rospi vivi, suoi simili, avvertiti per tutto il fosso; lo fa al ricordo di quelli visti morti, trucemente uccisi. E non meno trema l’uomo-lettore che, con “occhi che di notte luccicano”, lungo il sentiero solitario e tortuoso di ogni vita, da vittima si scopre a buttar giù più di un rospo, ripensando anche ai tanti che ha dovuto e che si troverà costretto ad ingoiare. Grande Tozzi.

Marco Capecchi

Grande, consapevole scrittore della crisi dell’uomo moderno: gli inetti, l’assenza di una provincia dotata di senso, la ricerca dei “misteriosi atti”, il nulla che motiva il vivere sono la materia delle sue opere. Scrittore difficile perché sperimentatore : la paratassi, la zoomata, ecc. Imprescindibile per capire il Novecento. E’ merito imperituro di critici come Debenedetti, Baldacci, Marchi, Luperini avercelo fatto capire.

Maria Grazia Ferraris

“Il Migliorini è un uomo che lavora la terra a un tanto il giorno; cambia padrone quasi tutte le stagioni…Egli comprò, da un suo amico rigattiere, la Gerusalemme e l’Orlando: dieci volumi di quella carta che pare cencio, e con una piccola figura ogni canto. Quando è l’ora di riposo cava dalla sporta, lasciata a un ramo di qualche pianta, un volume, e lo legge agli altri…” La citazione mi conduce a un articolo ( COME LEGGO IO) scritto nel lontano 1919 e pubblicato postumo in cui Tozzi parla del suo metodo di lettura. Lo straordinario Migliorini, bravo a potare le viti, legge come leggeva Tozzi. “ Ad ogni ottava, faceva il commento a modo suo, e poi:- State a sentire com’è bella! Non pare vera?E batteva le lunghe dita terrose sul libro”. Leggeva non fatti storici o clamorosi, né mirava alla trama, né a come va a finire… mirava a far emergere la bellezza del frammento, seguendo i nostri misteriosi criteri di forse cattivi lettori,… per cui si spiega l’interesse per le Bestie e per il rospo…e su come li si uccide, di un realismo espressionistico non privo di pietas, che esprime il suo disagio profondo, ma anche la perdita di ogni simbolismo.(“ questi sono i rospi che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte luccicano”).

Isola Difederigo

L’animalismo di Tozzi, quale si profila anche per via di acquisizioni letterarie e scientifiche sulla scorta di quella prima intuizione estetica “Gli uomini sono nati dalle bestie” (“Paolo”) annullatrice di distanze – preannunciata dallo sfogo autobiografico della lettera di “Novale” del 15 settembre 1907, che fa stimare gli uomini “affini alle bestie”, “un pezzo di carnaccia con le budella sudicie dentro”, e invocare per sé la metamorfosi in “uno stocco di granturco” -, si disloca all’interno della pagina in un vastissimo campionario di disumanità che vede gli animali protagonisti alla stregua degli uomini, competitivi con essi nel fornire esempi di crudeltà o più spesso loro vittime, e nel parallelo affiorare di un subumano che conserva fattezze bestiali, impronta dell’antica origine. In questa prosa di “Bestie” l’autore propone una casistica di come si uccidono i rospi al modo di un narratore realista; con un più di accanimento espressionistico nella resa scrupolosamente analitica di particolari repellenti che richiama alle immagini dei rospi tante volte effigiati e suppliziati sulla carta da un artista a Tozzi fraterno, l’amico Lorenzo Viani.

Roberta Mastrelli Berti

Veramente il cuore.. “doventa mencio”!

Yumiko Nakajima

Mi sembra che nelle “Bestie” Tozzi fa affidarsi al flusso della coscienza, inserendo il paesaggio senese, racconta memoria con l’umore inerte, e racconta le sue memorie incise nel profondo. All’improvviso appare l’animale e gli insetti, e ci spaventa dal suo modo della descrizione con la crudelta’, sopratutto quello di rospo.

Damiano Malabaila

Davvero unico e straordinario, il grande Federigo! Molto interessante anche la scelta dei filmati: consiglio soprattutto il video “Tozzi, la scrittura crudele” a chi non lo avesse ancora visto.

Chiara Scidone

Tozzi è sicuramente uno degli autori più interessanti del novecento. In fondo gli uomini derivano dagli animali e gli somigliano, egli ha scelto proprio i rospi sono il simbolo di un’esistenza “paludosa”, bloccata, che ha bisogno di una svolta. Situazione comune in molte vite…

Arianna Capirossi

In questa prosa di Tozzi, l’uomo è presentato come bestia tra le bestie: nonostante la dedizione al lavoro e/o alla cultura, non è estraneo alla crudeltà e alla prevaricazione. L’uomo è parte integrante di un Creato sofferente, tanto che il narratore, osservando il paesaggio, esclama: “Che tristezza desolante e silenziosa!”. La scontentezza umana si amplifica nel parossismo della violenza, ottimamente rappresentata dall’enumerazione che conclude la prosa, in cui sono passati in rassegna tutti i rospi uccisi visti dal narratore. Il catalogo è scandito dall’anafora martellante del dimostrativo “quello”, che rimanda a situazioni del passato; tuttavia, nella frase finale troviamo “questi” (“questi sono i rospi che ho visto morire”), il dimostrativo che indica vicinanza: le immagini di morte del passato in realtà sono sempre vicine e presenti, poiché non lasciano mai la mente del narratore.

Giacomo Trinci

Con “Besti” Tozzi tocca da subito un vertice dell’espressione difficilmente eguagliabile. L’ardua elevatezza di una lingua acre e nuovissima misura una prosa di rigore metrico assoluto. Parlo proprio di rigore metrico che viene come a freddare, stilisticamente, il bruciante mondo dei “misteriosi atti nostri”: con l’inesorabilità assoluta delle parole-cose.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

Tozzi attraverso una scrittura straordinariamente lucida e moderna ci mette in contatto con la sua tormentata interiorità: il dramma del suo quotidiano sconsolato, desolato, privo di un qualsiasi bagliore di speranza ci percuote e percepiamo con chiarezza che il destino crudele dei rospi è trasparente metafora della sua condizione e, più in generale, della condizione dell’individuo, costretto ad affrontare giorno dopo giorno una sofferenza immotivata e senza fine.

tristan51

Straordinario, nel video, l’intervento di Mario Luzi. Il suo giudizio su Tozzi, storiograficamente centrato ed estremamente positivo, si completa – anche attraverso il paragone instaurato con l’opera di Italo Svevo – con le importanti notazioni contenute nel libro-intervista di Renzo Cassigoli “Frammenti di Novecento”.

Aretusa Obliviosa

Qualche tempo fa l’amico e poeta Trinci notava acutamente, durante la presentazione di un libro nella mia piccola Pistoia, come la narrativa toscana sia in genere percorsa a livello tematico e stilistico da una vena di cattiveria tale da costituirne una sorta di file rouge, un’impronta genetica facilmente riscontrabile. È certo a pieno titolo che Federigo Tozzi si inserisce in questa tradizione, e la succitata prosa di “Bestie”, splendida e terribile ne è la prova: la si potrebbe rileggere dieci, venti volte e alla ventunesima avvertiremmo ancora quello strano effetto allo stomaco, quella sensazione difficile da sopportare che ci fa penare per un rospo alla stessa stregua che per una persona. “Uomini e rospi”, come ci fa notare nelle sue belle e memorabili pagine Nicoletta Mainardi parlando appunto dei due amici – ma guarda un po’! – toscani entrambi Viani e Tozzi; proprio così: uomini e rospi, che si scambiano i ruoli fra umanità e crudeltà, fra pittura e scrittura, fra la cifra della dura realtà e l’implacabile tratto espressionistico, fra Viareggio e Siena. Potremmo anche non muoverci di un solo passo, rimanere nel medesimo confondersi di mare, colline e viottoli, limitarci ad alzare lo sguardo verso la lucchesia e il manicomio di Magliano, e ritroveremmo, con uno scarto di solo qualche decennio, una prosa, epica e contemporanea al tempo stesso, non meno scarnificata e crudele, la stessa pennellata espressionistica (che ci sia la complice mediazione delle conterranee “Chiavi nel pozzo”?) negli icastici e indelebili ritratti delle “Libere donne” di Tobino. Una delle poche scritture del novecento, a mio modesto parere, capaci di reggere il confronto della crudeltà col nostro Federigo.

Matteo Mazzone

Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento: senza se e senza ma. Il rinnovamento del romanzo italiano sta proprio dietro la sua opera di costruzione sistematica di uno scritto propulsivo: uno spartito assieme vociano ed espressionistico che mescola, alla poetica del frammento autobiografico, quella allucinata visionarietà di sapore campaniano che lo porta a strutturare e a disseminare le sue opere di immagini forti, agghiaccianti, terribili e temibili: il finale de ‘Il podere’ testimonia la lucida inquietante tragicità di un uomo, il protagonista Remigio, colpito da una morte più che esemplare: di tutte le morti possibili, è proprio quella decapitazione con l’accetta dello stesso Berto ad essergli fatale. Una morte tanto stupida quanto in grado di lasciare il lettore ad occhi sgarrati, rapito in un incubo surreale, da mettere in relazione intratestualmente (ed intertestualmente) colle maggiori opere tozziane. Tozzi va letto d’estate, al mare, sotto il sole: si stempera meglio così il suo essere tragico-distruttivo”.

Duccio Mugnai

Mi ricordo la prima volta che lessi questa prosa di “Bestie”. Ne rimasi fortemente impressionato per la violenza lucida, sadica e realistica, che vi veniva rappresentata. Migliorini, inoltre, è veramente figura dai tratti e dagli atteggiamenti demonici. Dalla banalità dell’ignoranza e della vita stessa nasce la violenza, come una lebbra, un male orribile che affiora in superficie dalle profondità dell’essere umano. Ed il personaggio protagonista è in balìa di questa violenza, impossibilitato a capire o a fuggire da un mondo che è già incubo per lui e la cui rappresentazione richiama ossessivamente la figura del padre, alla quale, per impotenza masochistica, non si può sottrarre. Così all’associazionismo jamesiano, attraverso cui Tozzi proietta nelle “bestie” le sue più disparate condizioni e mutazioni psicologiche, adesso io aggiungo anche il taglio narrativo e feroce di Dostoevskij. I rospi, di cui le “sulfuree”, demoniche, dantesche figure dei contadini fanno strage, ricordano le pene infernali della Divina Commedia, i nodi scorsoi, a cui Tozzi attacca la sua vita, le pene della sua psiche, della sua anima martoriata. Così, la grandezza “crudele” della sua scrittura mi appare sempre nuova ad ogni lettura, sempre più codificante stimoli, stilemi e modelli culturali e letterari, sempre nuovi e più complessi.

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