‘Notizie di poesia’. Marzo, il post del mese (con i vostri commenti)

Firenze, 31 marzo 2017 – E’ Pier Paolo Pasolini con il post Buon compleanno, Pasolini! che qui si ripubblica assieme ai vostri commenti il vincitore della nostra gara di marzo. Un Pasolini in chiave esibitamente civile e duramente polemico come quello di Alla mia nazione non ha mancato di sollecitare la vostra attenzione e il […]

Firenze, 31 marzo 2017 – E’ Pier Paolo Pasolini con il post Buon compleanno, Pasolini! che qui si ripubblica assieme ai vostri commenti il vincitore della nostra gara di marzo. Un Pasolini in chiave esibitamente civile e duramente polemico come quello di Alla mia nazione non ha mancato di sollecitare la vostra attenzione e il vostro pronunciamento! Al secondo posto del podio un classico del nostro primo Novecento come Dino Campana con il post L’invetriata. Dino Campana; bronzo per Giorgio Caproni, un altro poeta amatissimo del nostro blog, con Marzo. Giorgio Caproni.

Tra i vostri commenti, numerosi e come sempre centrati e penetranti, ne scegliamo stavolta tre: quelli di Giacomo Trinci, di tristan51 e di Matteo Mazzone. Rispettivamente: “Il danno barbarico, il dente incivile, intride il corpo della poesia ‘civile’, in questi anni di incipiente neocapitalismo italiano. Questo sente il Pasolini poeta all’esordio degli anni sessanta, in una raccolta che declina la forma della poesia ‘logica’, raziocinante, foscoliana, delle ‘Ceneri’ in un dettato ormai che si appresta a scoprire nervature che ne screpolano e corrodono la ‘bella forma’ petrarchesca-leopardiana, che ancora costituiva il carattere della poesia precedente. Ecco, quindi, in quel folgorante finale della poesia ‘Alla mia nazione’, il ‘mare/male’ che formano la rima interna, e che con la parola ‘mondo’ sigillano l’epigramma in modo definitivo, secco, a definire il sintomo di una metastasi culturale e politica che esploderà in quegli anni e continuerà in seguito, in maniera più evidente e forte. Il continuo trasformarsi della forma della poesia, magistralmente letto e interpretato nella saggistica di Marco Marchi dedicata all’opera di Pasolini, trova qui un punto decisivo di modulazione: la poesia non sarà più da questo momento riconoscibile nelle sue forme consuete, ma assumerà vesti prosaiche, magmatiche, cinematografiche, saggistiche, giornalistiche… Il magistero poetico sarà divorato; come il povero corvo marxista, sarà divorato in ‘salsa piccante’ dal ‘dopostoria’ neocapitalistico“; “Fin dagli anni friulani che avrebbero condotto alla ‘scoperta di Marx’ il richiamo sociale si impone in Pasolini come un richiamo d’amore: un’allargata apertura relazionale di tipo collettivo, dialogica e comunicativa, provata anche per via genealogico-familiare dall’interessante episodio epico-drammaturgico dei ‘Turcs tal Friùl’, maggio 1944. Il testo inaugura peraltro  davvero tra ‘passione’ e ‘ideologia’, ‘cuore’ e ‘buie viscere’ l’arduo appannaggio partecipativo a quella vasta ed indivisa comunità di vivi e morti, qui anche storiograficamente certificabile, che la pratica della poesia autorizza: l’ingresso in una inedita dimensione tra spazio e tempo, orizzontalità e verticalità, estensione e affondi sul corpo e sull’anima dell’umano“; “La patria è da sempre stata utilizzata come analisi stereometrica della società, in primis, e della civiltà, in secundis. Il sentimento di Pasolini verso la nozione di nazione è notevolmente cambiato nel suo iter scrittorio: se agli inizi della sua sperimentazione poetica egli si lasciava trasportare dalla ‘rosada’ dei contadini friuliani, nuova élite anti-capitalistica a cui rivolgersi – espressione di una semiotica verginità e di una casto significante – progressivamente l’idea e l’ideale di nazione abitata da uomini puri in quanto creature etimologicamente innocenti – cioè non in grado di nuocere – si abbuia in conseguenza dello sviluppo neocapitalistico, conformistico e conformista: è quest’ultimo, un calderone, un guazzabuglio di benesseri effimeri, di gratuite e politicizzate spettacolarizzazioni borghesemente sconce e prepotentemente affacciatesi sull’Italia degli anni ’60. La classe è il nemico, perché a lei manca la coscienza. La dominante e squallida categoria dei perbenisti tuttofare, degli indigenti del non-scandalo: la borghesia, insomma, sempre prona alla legge economica, al prodotto, campione del potere e verga della moralità, sallustianamente simulatrice e dissimulatrice. È l’imperversare di questo rivitalizzato ceto sociale a contraddire la purezza, il candore di quell’Italia contadina, basso-proletaria ormai passata, obliata, né più mai (ri)attuabile. A Pasolini non rimane che combattere, gettando il suo corpo nella lotta, tutte le forze negative del moralismo ipocrita nazionale, riflesso dell’incapacità critica e della faciloneria più ignorante. Lotta che, purtroppo, pagò con la vita“.

Buona lettura e rilettura di Pasolini, Campana e Caproni!

Marco Marchi

Buon compleanno, Pasolini!

VEDI I VIDEO “Alla mia nazione” di Pier Paolo Pasolini letta da Vittorio Gassman , Da “Il glicine” , Pasolini legge versi da “Poesia in forma di rosa” , “Io so” , “Che paese meraviglioso era l’Italia…” letto da Toni Servillo , Teaser trailer del film “La macchinazione” di David Grieco, con Massimo Ranieri

Firenze, 5 marzo 2017 – Ricordando che il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini.

All’altezza cronologica della Religione del mio tempo – raccolta a cui i versi di Alla mia nazione appartengono – , il glicine dell’omonima poesia non è più per Pasolini l’emblema di una pura esistenza perennemente rinnovantesi come all’epoca dell’Usignolo della Chiesa Cattolica, ma il simbolo di una verginità defunta: la resistente restituzione lirica di una consapevolezza oltranzistica, semmai, da mistico-razionalista smentito. La poesia si prepara in realtà ad adattarsi agli esiti rigorosamente maturati all’interno del proprio esercizio: si appresta a subire il crollo, a sopravvivere, simulare, mimetizzarsi, pragmatizzarsi e magmatizzarsi, nascondersi – lei mito sfuggente, intonazione, ma anche etimologicamente vento che soffia dall’esterno – in altre «forme della poesia».

Poesia in forma di rosa, intitolerà fra poco il poeta. Andar per fiori all’Inferno: nella Divina Mimesis (con umili «fiorucci», danteschi «fioretti», «fiorellini», con un pascoliano prato del cosmo incontrato sul cammino) e in Petrolio (dove il glicine, con il suo profumo da rappresentazione sinestetica di una realtà lontana dalla realtà, farà testuali apparizioni). Come per diffrazione – poesia del sesso in tempi di esaurimento repressivo e di incipiente permissivismo sociale – sboccia in ambito cinematografico Il fiore delle Mille e una notte.

Ma poi verrà l’«abiura dalla Trilogia della vita», si stabilizzeranno una volta per sempre toni espressivi terminali da Tetro entusiasmo, su un «cuore» ideologicamente accordabile in chiave marxista con Gramsci prevarranno le «buie viscere» contro di lui. Pasolini in Petrolio scenderà davvero all’Inferno, come nella vita e come in molte delle sue sterminate letture, dei suoi grandi riscontri letterari anche in Descrizioni di descrizioni saggisticamente convocati e resi efficienti: da Strindberg a Sade (Salò!), da Dostoevskij a Dante, secondo ulteriori iridescenze, adesso, di un Dante interpretato come grande veicolatore garante della possibilità autoanalitica estrema in termini di poesia, se in chi elabora Petrolio – lo ha notato con pertinenza Aurelio Roncaglia – «l’impulso più profondo non è di tipo oggettivo-narrativo, bensì d’intima ricerca, dunque inclinato a un istintivo lirismo». Pasolini affonda il bisturi nel proprio corpo, fa della sua affilata ed oltranzistica «autoanalisi» un’«autopsia».

Dante come sperimentazione del morire, del vedere e comprendere attraverso la morte. Lo scandalo si rinnova, un’eretica, equivocata e inaccettata «forza del passato» si estremizza in forma linguistica, in struttura, in genere letterario nuovo ambiziosamente intentato su base culturalistica dispiegata e di nuovo contaminata (dalle Argonautiche di Apollonio Rodio a L’écriture et l’expérience des limites di Philippe Sollers); ma i termini essenziali del confronto si ripropongono pressoché immutati, tra pressanti richieste ideologiche di pronunciamento e di giudizio ed esigenze di testimonianza poetica, di intransigente, finale e ultramondana autorappresentazione conoscitiva in cifra di obbedienza poetica.

Un sogno visionario di bolge e gironi in cui il capire è «gioiosa cognizione del capire», dove i personaggi pare che parlino una lingua «meravigliosa», più che mai poeticamente risonante e lucente, «in versi o in musica». E non si può non ripensare, a integrazione del discorso e per contrasto, magari assieme ai versi accesamente polemici di Alla mia nazione che oggi si propongono, ai versi del Glicine che già ad apertura degli anni Sessanta – all’interno di una raccolta in cui il tema civile, appunto, al pari che nelle Ceneri di Gramsci esigeva risposte e ancora potentemente si stagliava –  dicevano: «tra il corpo e la storia, c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò che è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli».

Marco Marchi

Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,

        ma nazione vivente, ma nazione europea:

e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,

        governanti impiegati di agrari, prefetti codini,

avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,

        funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,

una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!

        Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci

pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,

        tra case coloniali scrostate ormai come chiese.

Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,

        proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.

E solo perché sei cattolica, non puoi pensare

        che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.

Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Pier Paolo Pasolini 

(da La religione del mio tempo, 1961, ora in Tutte le poesie)

I VOSTRI COMMENTI

tristan51

Fin dagli anni friulani che avrebbero condotto alla “scoperta di Marx” il richiamo sociale si impone in Pasolini come un richiamo d’amore: un’allargata apertura relazionale di tipo collettivo, dialogica e comunicativa, provata anche per via genealogico-familiare dall’interessante episodio epico-drammaturgico dei “Turcs tal Friùl”, maggio 1944. Il testo inaugura peraltro – davvero tra “passione” e “ideologia”, “cuore” e “buie viscere” – l’arduo appannaggio partecipativo a quella vasta ed indivisa comunità di vivi e morti, qui anche storiograficamente certificabile, che la pratica della poesia autorizza: l’ingresso in una inedita dimensione tra spazio e tempo, orizzontalità e verticalità, estensione e affondi sul corpo e sull’anima dell’umano.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

Pasolini scrivendo “Alla mia nazione” si collega idealmente ad un filone della tradizione letteraria italiana molto noto e vivo di poesia civile  basti ricordare, oltre all’invettiva dantesca del VI del Purgatorio, la canzone petrarchesca “Italia mia benché il parlar sia indarno” e “All’Italia” del giovane Leopardi  ma pur riallacciandosi ad esso se ne distanzia: sono infatti assenti da questo componimento che fa parte dei “Nuovi epigrammi”, una delle sezioni in cui è divisa “La religione del mio tempo”, la parola “Italia” e la parola “patria”. In Pasolini, quindi, assistiamo ad una negazione della “funzione” di patria alla terra in cui è nato, e questa negazione è così forte che egli arriva a privarla persino del nome. L’inizio dell’epigramma – anche la scelta di una forma metrica più dimessa rispetto alla più nobile canzone conferma il disprezzo dell’autore – con la sua triplice negazione, conferma e accentua il rifiuto che è rivolto non tanto alla terra quanto alla sua classe dirigente, a quei “milioni di piccoli borghesi” che la popolano e la degradano con la loro ideologia benpensante, ipocrita, corrotta e corruttrice. Il disprezzo di Pasolini, esteso anche all’Europa, che dell’Italia condivide i mali, si esprime dapprima attraverso la parodia ironicamente amara della nota frase mussoliniana, pronunciata in occasione del discorso dell’ottobre del 1935 e poi incisa sulle facciate del palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur per culminare, poi, nell’invettiva finale, apocalittica e di sapore dantesco, dandoci la misura di quanto pessimistica fosse la sua visione: una visione lucida, disincantata e purtroppo amaramente profetica nella sconvolgente attualità che mantiene ancora oggi, a più di cinquant’anni di distanza.

framo

La dedica del titolo ci introduce e ci accompagna ancora tra le righe di questo amaro, appassionato e attualissimo grido d’amore. La parola “nazione” si radica in “nascita”, rinascita per estensione. L’aggettivo possessivo “mia” afferisce sia all’area affettiva (rimanda a pathos, intimità e rispetto) sia a quella desiderativa e prescrittiva (l’ideale cui tendere). Non cellula, organo isolato, singolo tessuto, coacervo o indistinto ammasso: tornare ad essere, farsi “corpo” dotato ancora di nervi e riflessi pronti all’interiore risveglio, da tradurre in gesto, in primis, quindi in prolungata, tenace azione che, divenuta opera, fecondi un possibile, umano e civile, rinnovamento. Concitato e irresistibile il richiamo del poeta. Buon compleanno Pasolini.

Aretusa Oliviosa

La tua poesia dà i brividi. Sono passati più di quarant’anni dalla notte che ti ha portato via, ma la tua implacabile lucidità parla ancora e ha riempito il nero abisso della morte e della distanza con la tua voce. Voce di Cassandra, purtroppo. Basta leggere il presente. Il nostro dovere è ascoltare e imparare, da te che per amore amavi essere maestro. Da te che per amore non sapevi mai tacere. Ti faremo vivere ogni volta che sapremo non tacere l’ignominia del presente e insegneremo ai nostri figli ad ascoltare la voce dei Poeti.

Grazie per essere nato.

Daniela Del Monaco

Pasolini sceglie un tema vivo della tradizione letteraria, quello della propria patria, senza però usare nei suoi versi il termine “Italia”, che risulta quindi la grande assente. Tale assenza vale come disconoscimento del presente (“sei esistita, ora non esisti più”). Il poeta ci apre gli occhi su una società – oggi più che mai attuale – inquinata dalla corruzione e dal degrado, denunciando una lunga serie di figure e di tratti miserabili che provocano disgusto, smarrimento, angoscia. Il componimento si conclude poi con un potente ultimo verso, a mio avviso un’eco dell’Infinito leopardiano, nel quale Pasolini spera che la sua, la nostra, nazione, dopo essere sprofondata negli abissi del mare/male finalmente riemerga liberata.

Giacomo Trinci

Il danno barbarico, il dente incivile, intride il corpo della poesia “civile”, in questi anni di incipiente neocapitalismo italiano. Questo sente il Pasolini poeta all’esordio degli anni sessanta, in una raccolta che declina la forma della poesia ‘logica’, raziocinante, foscoliana, delle “Ceneri” in un dettato ormai che si appresta a scoprire nervature che ne screpolano e corrodono la “bella forma” petrarchesca-leopardiana, che ancora costituiva il carattere della poesia precedente. Ecco, quindi, in quel folgorante finale della poesia “Alla mia nazione”, il “mare/male” che formano la rima interna, e che con la parola “mondo” sigillano l’epigramma in modo definitivo, secco, a definire il sintomo di una metastasi culturale e politica che esploderà in quegli anni e continuerà in seguito, in maniera più evidente e forte. Il continuo trasformarsi della forma della poesia, magistralmente letto e interpretato nella saggistica di Marco Marchi dedicata all’opera di Pasolini, trova qui un punto decisivo di modulazione: la poesia non sarà più da questo momento riconoscibile nelle sue forme consuete, ma assumerà vesti prosaiche, magmatiche, cinematografiche, saggistiche, giornalistiche…Il magistero poetico sarà divorato; come il povero corvo marxista, sarà divorato in “salsa piccante dal “dopostoria” neocapitalistico.

Antonella Bottari

Pasolini pur non ricorrendo alla forma-canzone, petrarchesca e leopardiana caratteristica della poesia civile e dunque rifugiandosi nell’epigramma, connota ancor di più la propria poesia come forza del passato contrapposta al presente della “nazione”, dando al concetto di “patria” un senso legato al nascere, più che ad una appartenenza sviluppata e consolidata culturalmente. Egli non si riferisce a tratti universali, tali che questa poesia potrebbe valere come critica a qualunque nazione moderna, ma a tratti specifici (come ad esempio alla forte tradizione cattolica); così che l’assenza di parole come ” Italia ” e ” patria ” vale come disconoscimento nel presente. Questa sottrazione di parole tematiche e questo rifiuto verso la propria “nazione” lavorano in particolare nei primi due versi, in cui essa è espressa per ciò che non è, ricorrendo poi ad avversative da cui si dipana il lungo elenco di figure e tratti miserabili. Disgustato, frastornato, aberrato da una società sepolta dalla corruzione e dal degrado, egli si rifugia nei versi salvifici della poesia, con la quale tenta di ritrovare la vita, quella vergine e immacolata, oramai perduta. La vita di Pasolini è così in continua contesa fra la volontà di perseguire l’attivismo e l’impegno culturale al fine di attuare l’ideologia marxista, nel contesto della lotta di classe, e la ricerca di una realtà connaturata nella vita più semplice, più grezza, pre-ideologica. Il dramma di Pasolini si accende dal momento in cui osserva lo sgretolamento repentino della cultura, dei costumi, della moralità italiana. Il suo verso, dunque, rilutta la bugia, la finzione, il costruttivismo finalizzati all’immolazione della perfezione estetica, ma ricerca la bellezza nell’autenticità e nella purezza della vita. La poesia, intrisa di ossimori, è difatti il riflesso della lacerazione profonda dell’animo pasoliniano, estremamente tormentato.

Isola Difederigo

Anche la vena civile di Pasolini, la sua rabbia, il suo odio borghese, obbedisce ad un io lirico incircoscritto, ampliato e indiviso, che ingloba il popolo e la storia, la società e la lingua in forma di antropologia del profondo. Tra la scoperta del corpo, che coincide con la scoperta della poesia, e questa allargata vocazione comunicativa alla realtà, la pronuncia poetica di Pasolini si fa testimoniale e profetica, la sua voce, la sua “musicalità che stona”, unica.

Matteo Mazzone

La patria è da sempre stata utilizzata come analisi stereometrica della società, in primis, e della civiltà, in secundis. Il sentimento di Pasolini verso la nozione di nazione è notevolmente cambiato nel suo iter scrittorio: se agli inizi della sua sperimentazione poetica egli si lasciava trasportare dalla “rosada” dei contadini friuliani, nuova “élite” anti-capitalistica a cui rivolgersi – espressione di una semiotica verginità e di una casto significante – progressivamente l’idea e l’ideale di nazione abitata da uomini puri in quanto creature etimologicamente innocenti – cioè non in grado di nuocere – si abbuia in conseguenza dello sviluppo neocapitalistico, conformistico e conformista: è quest’ultimo, un calderone, un guazzabuglio di benesseri effimeri, di gratuite e politicizzate spettacolarizzazioni borghesemente sconce e prepotentemente affacciatesi sull’Italia degli anni ’60. La classe è il nemico, perché a lei manca la coscienza. La dominante e squallida categoria dei perbenisti tuttofare, degli indigenti del non-scandalo: la borghesia, insomma, sempre prona alla legge economica, al prodotto, campione del potere e verga della moralità, sallustianamente simulatrice e dissimulatrice. È l’imperversare di questo rivitalizzato ceto sociale a contraddire la purezza, il candore di quell’Italia contadina, basso-proletaria ormai passata, obliata, né più mai (ri)attuabile. A Pasolini non rimane che combattere, gettando il suo corpo nella lotta, tutte le forze negative del moralismo ipocrita nazionale, riflesso dell’incapacità critica e della faciloneria più ignorante. Lotta che, purtroppo, pagò con la vita.

m

Che capolavoro di poesia, pensiero e impegno civile! Anche nel riconoscimento e nella denuncia della più oscura tragedia, la voce di Pasolini ci lascia qualcosa che può andare oltre la consolazione: qualcosa come una immagine, o un vago ricordo, di felicità.

Chiara Scidone

Una poesia attuale, un tema molto importante e moderno, quello della patria. Con i suoi versi Pasolini denuncia una società borghese corrotta suscitando scalpore e dibattiti.

Pasolini, una persona eclettica e uno dei maggiori intellettuali del 900. Non c’è miglior modo di ricordarlo e fargli gli auguri se non con questo capolavoro che esprime tutto il suo essere.

Duccio Mugnai

E’ inquietante pensare che questi versi siano attualissimi. Molto più socialmente mimetici adesso di quanto non lo fossero all’inizio degli anni ’60. La condanna è inesorabile e ben descrive ciò a cui è ridotta la nazione; solo la Costituzione, così tanto disattesa e vilipesa, ancora ci difende. Appaiono come in un incubo tragicomico tutti i vizi degli italiani, soprattutto piccolo-borghesi bigotti e con le piaghe innegabili del neofascismo: “una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!” L’ipocrisia e l’egoismo serpeggiano su tutto, ancor più gravi se si considera che il “bel paese” vorrebbe essere cattolico ed invece sprofonda nel suo ignorante vittimismo.

Giulia Bagnoli

Chissà cosa direbbe oggi se fosse presente! Bellissima e attuale.

Cesare

Italia di ieri, Italia di oggi. Gli scenari e gli attori, pure di aspetti diversi, non cambiano! Sembrano scritte oggi queste parole!…

Arianna Capirossi

Penso che Pasolini sia stato il più eterodosso e lungimirante tra i poeti dell’Italia postbellica. Capace di lucidissime analisi sociologiche, ha tentato, attraverso una variegata opera che spazia dalle lettere al cinema, di aprire più volte gli occhi agli italiani sulle derive disumanizzanti della società consumistica. Evidentemente, gli italiani non lo hanno compreso, e anzi hanno preferito rinnegare uno dei loro massimi poeti rifiutando persino di inserirlo nei programmi scolastici. Eppure, Pasolini sarebbe il primo autore da leggere nei nostri licei. In questo modo, gli studenti capirebbero il potere liberante e critico che la letteratura può avere ancora oggi, e la interpreterebbero come ente attivo utile a forgiare le menti contro i subdoli inganni della contemporaneità; non la percepirebbero, al contrario, come spesso succede, a mo’ di orpello inutile e secondario. Rimarrebbero affascinati dal genio comunicativo di Pasolini, che ha saputo rilanciare l’amore per le lettere attraverso il cinema, con un perfetto sposalizio tra linguaggi artistici diversi. Grazie a lui, la storia della letteratura, dai Vangeli biblici alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, da Dante e Boccaccio a De Sade, ha potuto essere trasmessa alle coscienze degli spettatori tramite pellicola. Ha cercato di aiutare un intero paese a ritrovare la propria identità culturale, ormai scheletrita e dissolta a causa della negligenza del sistema politico. Basti pensare alla valorizzazione del paesaggio materano nel “Vangelo secondo Matteo”, per cui ancora oggi dobbiamo essergli grati.

Lorenzo Dini

“Il nodo pasoliniano si svolge con la poesia che l’avviluppa”, scriveva acutamente Enzo Siciliano per spiegare l’inconsueto, geniale e sagace saggista, critico letterario e regista friulano-romano. L’attività del poeta è infatti l’attività chiave e determinante nella complessità della produzione artistica pasoliniana e ne costituisce la conquista espressiva più originale e durevole. Pasolini così ha “rinunciato alla tornitura dorata del nostro endecasillabo, del sonetto, delle terzine, al bene che essi rappresentavano, alle maniere del lessico puro: li ha trasformati in atti della disperazione dei nostri tempi”, in un linguaggio infarcito di elementi gergali, “quasi prosa”, il cui connotato qualificante è un plurilinguismo magmatico.

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