Firenze, 30 dicembre 2020 – Due anni fa fu Giorgio Caproni, l’anno scorso fu Pier Paolo Pasolini, e quest’anno è Cesare Pavese il poeta che si aggiudica il titolo di “post dell’anno 2020”, con il post di agosto La morte e gli occhi. Cesare Pavese.
Grande affermazione, quella di Pavese, cui fanno idealmente corona, in questa classifica su base annuale dei post mensili più apprezzati e commentati, il post di novembre di Federigo Tozzi classificatosi secondo e i post di gennaio di Giorgio Caproni, quello di marzo di Pier Paolo Pasolini e quello di ottobre di Rainer Maria Rilke classificatisi pari merito terzi (rispettivamente Buon compleanno a Giorgio Caproni , Alla mia nazione. Pier Paolo Pasolini e Orfeo, Euridice, Ermes. Rainer Maria Rilke).
E vogliamo festeggiare Cesare Pavese anche riproponendo i commenti al post allora selezionati? Tra i vostri commenti – così scrivevamo –, numerosi e tutti di qualità, segnaliamo quelli di Giacomo Trinci, Matteo Mazzone e Duccio Mugnai (che devo ringraziare per la citazione). Rispettivamente: “Il novenario, in questa poesi a di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la “poesia della tradizione” si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre”; “La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una ‘vita non vita’. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda e acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del ‘gorgo del nulla’, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere ‘il cane del suo nulla’. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieta di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica e inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire”; “Marchi ha centrato un nodo fondamentale della poetica di Pavese: ‘crescere è morire attraverso la scrittura’. A livello cronologico, l’ultimo romanzo intitolato ‘La luna e i falò’ può essere accostato alle famose poesie scritte per Constance Dowling. Il protagonista del romanzo ha viaggiato, è stato in America, prima di conoscere l’esperienza della Resistenza. Eppure comprende, in un raziocinio assolutamente efficace, ma depressivo, che la fibra più profonda della vita è male, malcelata crudeltà ferina. In pieno deserto americano era rimasto senza benzina, in totale solitudine, chiuso dentro la propria macchina; a notte inoltrata una luna piena era diventata rosso sangue, mentre un branco di lupi ululava intorno. Tutto finisce per crollare; non c’è più maturità, perché la ‘cara speranza’ è ‘la vita’ e ‘il nulla’, mentre la ‘morte […] ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo’ e ‘i tuoi occhi’ saranno ‘una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio’. Una struggente, dolorosa fino al parossismo, impossibilità di amare giace al fondo di una mortale presa di coscienza; non esiste una vera giustizia, né amicizia, solo brutalità mascherata dalle consuetudini più aride e fasulle della società e della vita stessa”. Ma belli anche i commenti ampi e articolati di Antonietta Puri e Antonella Bottari, come quelli sintetici e originalissimi di Damiano Malabaila (ma chi si cela dietro quello che appare uno pseudonimo di derivazione leviana?).
Ecco dunque, assieme agli straordinari versi della celeberrima poesia di Pavese risultata vincitrice, la mia nota critica di accompagnamento relativa e, come al solito, i vostri commenti. Buona lettura o buona rilettura di Pavese (ma anche, volendo, di Tozzi, Caproni, Pasolini e Rilke), e a domani per concludere insieme un altro anno di “Notizie di poesia”.
Auguri, auguri cordialissimi a tutti!
Marco Marchi
La morte e gli occhi. Cesare Pavese
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Firenze, 27 agosto 2020 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.
Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.
«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura unità di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.
I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.
Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Anche se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcere, Paesi tuoi, La bella estate, La spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagno, La casa in collina, Il diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne sole, La luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.
L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.
L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi – si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 – è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione – di ogni illusione – a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».
Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.
Marco Marchi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese
(da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
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