‘Notizie di poesia’. I commenti più belli 2019 (con una filastrocca di Gianni Rodari)

VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari Firenze, 31 dicembre 2019 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi, per ricordare il 2019 trascorso insieme e festeggiare […]

VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari

Firenze, 31 dicembre 2019 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi, per ricordare il 2019 trascorso insieme e festeggiare il 2020 in arrivo, un ampio florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie. Un mosaico citazionale che viene liberamente a configurarsi come un suggestivo testo unico a più mani, una sorta di “commento dei commenti” del nostro blog.

Evviva dunque, e auguri cordialissimi! Che il 2020 sia per tutti voi un anno pieno di gioia e serenità! Sempre in viaggio, sempre mobilitanti, soli e insieme, fiduciosi pellegrini delle poesia, come l’opera di Pietro Paolo Tarasco che anche quest’anno illustra questo post suggerisce.

E ancora auguri, auguri di cuore con questa propiziatoria, svagata ma in fin dei conti saggiamente ragionevole filastrocca di Gianni Rodari che vale per piccoli e grandi: a partire da stanotte!

Filastrocca di Capodanno

Filastrocca di Capodanno

fammi gli auguri per tutto l’anno:

voglio un gennaio col sole d’aprile,

un luglio fresco, un marzo gentile;

voglio un giorno senza sera,

voglio un mare senza bufera;

voglio un pane sempre fresco,

sul cipresso il fiore del pesco;

che siano amici il gatto e il cane,

che diano latte le fontane.

Se voglio troppo, non darmi niente,

dammi una faccia allegra solamente.

A domani! Buon 2020!

Marco Marchi

I COMMENTI PIU’ BELLI DEL 2019

Giacomo Trinci

In questa splendida fase del percorso poetico di Pasolini, che amo definire “foscoliana” per l’antico amore portato dal giovane liceale al poeta delle Grazie e dei Sepolcri, spicca con secca evidenza il configurarsi di una lingua della poesia ad alta densità ragionativa che, a partire dalla sezione dell’Usignolo della Chiesa cattolica intitolata “La scoperta di Marx”, scopre a livello stilistico una ben precisa “musica della sintassi” che ritrovava nel Leopardi della “Ginestra” e, appunto, nel Foscolo poematico, i suoi amati maestri. La terzina dantesca,passando per Pascoli, mette a fuoco lo spettro antinovecentesco di un dire dibattuto tra passione e ideologia, tra buio delle viscere e luce della ragione. Non si capisce a fondo lo sperimentalismo di questo Pasolini e di tutto il suo percorso letterario, se non si mette a fuoco la natura necessaria delle sue opzioni linguistiche di volta in volta adottate, se non si sottolinea il suo essere rapito, chiamato dalla sua vocazione poetica; Pasolini, in tutte le sue svolte, è chiamato dal suo amore per la realtà, come dirà in una delle sue poesie, “unico amore della sua vita”. Non è il suo uno sperimentalismo ” a tavolino”, esteriore; Pasolini, non sceglie, è scelto. Con la violenza di un atto d’amore. Nel capolavoro delle “Ceneri” la lingua batte e ribatte il pensiero alla ricerca della luce della grazia e della ideologia:nel nostro buio, la chiarezza sofferta di una preghiera, laico talismano.

La musica della sintassi svolge, nella lirica “I limoni” di Montale, un discorso di programma che si apre ad una interlocuzione doppia: il tono confidenziale dell’ “ascoltami” iniziale è rivolto insieme ad un lettore e, più in grande, allude ad una tradizione, ad una storia delle forme della poesia. L’intonazione prospettica del componimento sottolinea il carattere fortemente dialettico del ragionare in versi di Montale: il carattere, insieme, di continuità verso la tradizione, rispetto alla grande rottura ungarettiana andata in scena con l”Allegria di naufragi”,e insieme l’abbassamento tonale del linguaggio, la modulazione di un tono nuovo, possibilistico-esistenziale, che costituirà una delle linee portanti, egemoniche del novecento posteriore a Montale. La rottura è frutto di questa ripresa-superamento della tradizione che, negli stessi anni, un grande poeta come Eliot definirà nel saggio “Stile e tradizione”. L’emozione che ci punge rileggendo questo componimento è data proprio dalla sua grande distanza rispetto al nostro tempo: frantumato che frantuma linguaggi forme, trita sintagmi, spezzetta ragioni afasiche… qui, ancora, l’alto ragionare da ginestra leopardiana affronta il negativo ed, ancora, lo contiene caparbiamente.

Antonietta Puri

Attila József, un poeta di cui, per tanto tempo i critici ungheresi interpretarono la produzione lirica come frutto della sorte avversa di giovane orfano disagiato e alla luce di una ribellione politica e sociale, – tanto che fu etichettato con condiscendenza “poeta proletario”, – è stato in seguito, giustamente rivalutato, soprattutto dalla critica italiana ( quando da noi se ne tradussero e se ne diffusero i componimenti) cogliendone innanzitutto i caratteri compositivi che lo differenziavano dagli altri poeti ungheresi e stranieri a lui contemporanei, dando poi importanza nella sua vita di poeta ad altre componenti che non fossero sempre e solo quelle dell’impegno politico, come per esempio al tema dell’amore, inteso come l’unica forza capace di aiutarlo a sopravvivere, in un contesto sociale che sempre di più lo fraintendeva e lo emarginava. Dunque, è con gioia che veniamo a conoscere Attila József come tra i più insigni poeti del Novecento, cantore della ribellione sociale e dell’amore, sognatore, profeta…, del quale è facile innamorarsi e di cui ogni lirica è fonte di sincera e pura commozione. Questo anche in grazia della filiazione e della mescolanza di espressionismo, surrealismo, realismo e simbolismo che si risolvono in un suo personale linguaggio schietto ed immediato che tocca, senza interposizioni, la sensibilità di chi legge le sue opere. La bellissima poesia “Con cuore puro”, giudicata dal regime fascista, per la sua cruda sincerità, provocatoria e antinazionalista, costò al poeta l’espulsione dall’università dopo un’aspra reprimenda, ma ci offre e ci evidenzia il “polso” del giovane artista, la cui unica ricchezza da spendere era la potenza e l’energia dei suoi vent’anni. Questa lirica rappresenta l’esposizione senza pudore – cuore in mano splendido e forte – di un sentimento doloroso e sempre più inasprito di deprivazione: miseria, abbandono, solitudine sentimentale, incomprensione – esperienze realmente vissute – , ma anche di un moto d’anima di impulsiva, giovanile, naturale rivolta verso il mondo indifferente.

“Buttate pure via/ ogni opera in versi o in prosa./ Nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa”…Come non citare Caproni che in quattro versi basterebbe a commentare tutte le “responsabilità” metaforiche attribuite all’archetipico fiore… E’ talmente usata e abusata la rosa, come oggetto, come parola, come forma, come idea, diventando un’astrazione tale da aver fatto ormai evaporare nel tempo, proprio come “res ammissa” (titolo della raccolta che contiene i versi di Caproni), cioè come un “bene smarrito” il suo senso profondo. E migliore definizione della rosa e della sua essenza (e anche qui occorre andare sullo scontato) non può darla se non Getrud Stein quando afferma ,come per sentenza, che “Una rosa è una rosa, è una rosa”, intendendo, credo, che nonostante tutti i simbolismi che possiamo attribuirle e tutti i fronzoli di cui la rivestiamo…, essa è essenzialmente una rosa, cioè l’oggetto reale in cui consiste. Borges ha scritto questa poesia che fa parte della raccolta “Fervor de Buenos Aires” in età giovanile (aveva all’incirca 24 anni) e, per sua stessa ammissione, tutti i poemi di questa serie, per quanto da lui “mitigata”, “limata” “corretta” e in parte epurata, risentono di “eccessi barocchi, di sentimentalismi e vaghezze” tipici dell’età, nonostante il Borges di allora fosse pressoché identico a quello più maturo, che commenta nel prologo della raccolta, ancora pronto a correggersi, sempre diffidente del fallimento quanto del successo…Dunque, questa pur bella poesia del 1923 parla della rosa archetipica, portatrice di tutti i simboli attribuitile nel tempo, anche contraddittori, spirituali e sensuali: è la rosa incorruttibile ed eterna, irragiungibile nella sua essenza, figura della bellezza umana ma anche della sua caducità, fuggevolezza e incanto della vita; è la rosa dell’amore romantico, della dedizione e della purezza, ma anche del languore, del piacere e della galanteria; è la santità, il misticismo dantesco e mariano, ma è anche il fascino di labbra tumide e vermiglie, di guance accese dalla passione e dal pudore… Poi, già ultrasettantenne, Borges ne scrisse un’altra, “The unending rose”, ultima poesia della raccolta chiamata, non a caso, “La rosa profunda”, in cui il poeta, narrando del mistico medievale persiano Farid al-Din Attar, vecchio e cieco come lui, lo immagina mentre parla con una rosa, percependovi infiniti significati e possibilità; è chiaro come Borges si immedesimi in questa figura a lui così simile, continuando a vedere nella rosa le qualità della profondità, della illimitatezza, dell’intimità, ventilando però la possibilità di scoprirne – forse – l’essenza quando, dopo la morte, Dio gli aprirà gli occhi ciechi per mostrargliela. Il nome stesso della raccolta, “La rosa profunda” rimanda forse alla forma che vi assumono i poemi, le parole e i versi sovrapponendosi gli uni sugli altri, a spirale, come i petali di una rosa, deponendo nel suo cuore nascosto la verità sulla poesia e sulla missione del poeta: quella di restituire alla parola la sua primitiva e oggi nascosta virtù.

Duccio Mugnai

La solitudine visionaria ed il genio della Dickinson hanno prodotto per noi questo capolavoro di poesia. La morte è gentile, nella sua gelida, incolore, muta impassibilità. Con la morte la Dickinson percorre il viaggio della sua vita, dove tutto ciò, che sembra espressione e esperienza di felicità, le viene negato. Solo questa terribile compagna la congela in un unico attimo di immortalità, che il poeta intuisce esser vero, irripetibile e solo. Per la Dickinson e le sue ossessioni rivelative, c’è solamente la morte, paradossalmente viva, lugubre ed eterna, insieme a lei, nella sua opera lirica. Questo artificioso, distillato prodotto di dolore e genialità giunge a noi lettori come un’apocalisse di vitalità. Ancora paradosso, per noi che leggiamo, e per l’autore, di cui, davvero, si potrebbe parlare di una “piaga rossa languente” come per Campana, o della frase ungarettiana “la morte si sconta vivendo”. Un percepire, un sentire l’efficacia dilaniante e rivelativa delle parole, propri solo dei poeti, come ci fa osservare anche Zanzotto. Nel suo articolo, Marchi sottolinea proprio questo aspetto. Attraverso una depressiva solitudine, immersi nel male dell’esistere, Montale afferma che “solo gli isolati comunicano”.

Durante le scuole medie, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters fu una delle mie prime, “confuse” letture. Mi affascinavano ed ancor mi prendono gli epitaffi-confessioni, che i singoli morti del paese facevano in un istante di vitalità, rubato all’abisso inesorabile della morte. Cominciai a pensare, anche in questo modo, le prime concretizzazioni efficaci e fortemente sensitive della letteratura. In un gioco sospeso tra i trapassi e l’incredibile molteplice varietà dell’esistenza umana, annientata nella morte, mi accorgevo del dramma doloroso che ogni essere umano prova e vive per testimoniare se stesso. Uno spirito di vita, altrettanto irrefrenabile quanto il morire, dominava l’esperienza totalizzante del nostro permanere in questo modo. Forse, davvero, come negli epitaffi, c’è poco da dire… a volte c’è il ridicolo, la cattiveria, la grettezza piccolo-borghese, ma, indiscutibilmente, sempre una necessità di parlare, di rivelare il proprio mistero, così tanto incompreso, disatteso, se non schernito, dalla morale comune. Qui sta il prezioso, struggente contributo sui segreti umani, che Edgar Lee Masters ci ha lasciato, scrivendo l’Antologia di Spoon River.

Maria Grazia Ferraris

Ezra Pound era un poeta e il tema dell’Usura – economico e finanziario – sembra a lui lontano: ma i poeti, (vedi Dante che aveva collocato gli usurai al VII° cerchio dell’Inferno) qualche volta vedono più lontano degli specialisti… Pound pensava che l’intera storia del mondo è la storia di una lotta continua fra il lavoro e l’usura, che è il dominio dell’immediato: distrugge il passato, è disperante sul futuro, è contro natura, lascia spazio solo al calcolo: non più la desiderata espressività e collaborazione dell’uomo al mondo, ma solo pena e sofferenza, senza coinvolgimento, sempre volti a un secondo fine che ne piega la natura: «lebbra», una «cancrena», che può corrodere e corrompere ogni cosa, portandola alla decomposizione e alla putrefazione

Ecco allora che agli orafi «fa ruggine usura del cesello»; e «non uno più impara a intessere oro nell’ordito». Tutto ciò che richiede arte e pazienza è misconosciuto, la bellezza e la cura nel lavoro non sono più un onore, ma un inutile onere. Persino il lavoro artistico diventa soggetto usuraio, dacché «nessun dipinto è fatto per durare o per conviverci», ma al contrario «si fa perché si venda, e in fretta». È il tradimento delle ragioni più autentiche del vivere umano. Come è attuale il poundiano Canto XLV!

Il tema della Notte : la signora dell’Impossibile, “vestito frangiato di Infinito”, il tempo autentico della vita di Fernando Pessoa. È solitudine che sfugge alle infinite maschere che il giorno con le sue contingenze costringe ad indossare, è fusione, splendida ed ammaliante, che sa catturarci “quando tutto è nulla”, consapevoli che “tutto è falso, salvo la tenebra e il silenzio”.

I rumori, le voci si disfano nel silenzio, i colori si smorzano, e si intuisce “ un’altra luce” e i sogni ci accarezzano, perché li sappiamo senza relazione con ciò che ci può essere nella quotidianità della vita. Notte carica di religiosità, di cui Pessoa adotta le rituali parole della tradizione, specificate nondimeno dalla definizione delle categorie dei deboli angosciati uomini cui si riferisce: “Mater Dolorosa delle Angosce dei Timidi, /Turris Eburnea delle Tristezze dei Disprezzati”. La Notte: un fiore dai tanti petali, consolante, “materna,/ infermiera antichissima che ti sedesti/al capezzale degli dei delle fedi ormai perdute,” l’unico conforto alla vita del Poeta.

Davide Boera

È come se tutta l’opera di Kavafis fosse un’unica cantica ininterrotta dove il poeta greco intrappola, con i suoi versi, le ombre che le cose della vita proiettano sullo schermo dell’anima: l’incompiutezza dell’esistenza, l’inafferrabilità del piacere, il rimpianto nostalgico dell’istante impermanente, l’implacabile imperativo del desiderio che mai si adempie fino in fondo. Chiedendo un prestito a Montale, Kavafis bagna nella luce greca della storia antica e del mito una ricerca, che si sa già fallita, di quel “bandolo” che non torna mai. Come mai non tornano i conti che ci ostiniamo a sbagliare sulle nostre incerte dita, senza capirne il perché.

Mario Benedetti. Anche con lui l’incontro fu molto causale e fu con la sua morte. È quasi stupefacente che alcuni degli autori contemporanei che ho amato di più li abbia conosciuti per il tramite della loro morte. Un’altro fu Riccarelli. La sua poesia sa meditare: “Non ti salvare” che sa di Kavafis, “Mi serve e non mi serve”… La sua poesia sa amare, come in quella postata da Marco e in tante altre… La la sua poesia sa anche mordere: Mario Benedetti è anche un poeta politico, la cui voce non è attutita nemmeno dalla polvere del tempo, come nella sua rilettura del Padre Nostro. Ma soprattutto la sua poesia sa tirare “Sassolini alla finestra” in quella strenua “Difesa dell’allegria” che in fondo in fondo ricorda un po’ quella del nostro Ungaretti. Un grande poeta, che si apprezza meglio nella pronuncia rioplatense.

Isola Difederigo

L’animalismo di Tozzi, quale si profila anche per via di acquisizioni letterarie e scientifiche sulla scorta di quella prima intuizione estetica “Gli uomini sono nati dalle bestie” (in “Paolo”, il poema in prosa del 1908) annullatrice di distanze – preannunciata dallo sfogo autobiografico della lettera di “Novale” del 15 settembre 1907, che fa stimare gli uomini “affini alle bestie”, “un pezzo di carnaccia con le budella sudicie dentro”, e invocare per sé la metamorfosi in “uno stocco di granturco” -, si disloca all’interno della pagina in un vastissimo campionario di disumanità che vede gli animali protagonisti alla stregua degli uomini, competitivi con essi nel fornire esempi di crudeltà o più spesso loro vittime, e nel parallelo affiorare di un subumano che conserva fattezze bestiali, impronta dell’antica origine. In questa prosa di “Bestie” l’autore propone una casistica di come si uccidono i rospi al modo di un narratore realista; con un più di accanimento espressionistico nella resa scrupolosamente analitica di particolari repellenti che richiama alle immagini dei rospi tante volte effigiati nel suo primo periodo simbolista da un artista a Tozzi fraterno, Lorenzo Viani.

Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta “leggero”. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della “libertà”; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – “E lasciatemi divertire!” – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, “la gente”, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità.

Teresa

Soltanto gli occhi “inondati dal colore del mare” (“Itaca”) di un poeta come Brodskij sono in grado di vedere che l’autenticità poetica e storica insieme – del mito può essere ritrovata ormai solo nel suo rovesciamento.

Damiano Malabaila

Tra le facoltà della poesia c’è anche quella di dar voce ai morti. O meglio, di rendere in immagini palpabilissime i pensieri dei vivi – di quei vivi che sentono più degli altri, i poeti – sul grande mistero che ci attende. La impareggiabile Emily Dickinson lo fa con la sua solita grazia magnetica e devastante: le quartine a ritmo alternato sobbalzanti come il trotto dell’ultimo cavallo, la sua lingua inglese quasi pudica, sobria e democraticamente (come la morte) paratattica, ma allo stesso tempo vibrante dello slancio di un pensiero che tocca le radici della vita.

Davvero uno Sbarbaro ai suoi vertici: è fondamentale ricordare questo protagonista che si è tenuto nell’ombra, ma si è dimostrato sensibilissimo auscoltatore dell’umano e con i suoi versi ci ha lasciato una straordinaria sismografia dei moti del cuore.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

Bellissima questa laude di Gabriele d’Annunzio, la prima lirica di Alcyone a essere stata composta: in essa troviamo anticipazioni dell’altrettanto bella “Pioggia nel pineto” e la ripresa di motivi e temi della lirica italiana più antica. La poesia immortala la bellezza della natura, personificata, con elementi – le labbra, le dita, il potere consolatorio – che potremmo definire femminili, così come donna – la donna amata? – è la sera. La palese ripresa del “Cantico” di San Francesco, in chiave laica ma non priva di una sua intrinseca religiosità, il richiamo, non meno patente, alla lirica petrarchesca, si coniuga qui con un ripetuto omaggio a Leopardi che questo temi aveva già trattato in poesie di grande bellezza. Rispetto ad altre liriche scritte da D’Annunzio a quest’altezza cronologica, assaporiamo qui una retoricità più dimessa, intima, che ci avvolge e ci incanta tra allitterazioni fruscianti e inarcature avvolgenti, tra umano e divino, cullati dal ritmo ammaliante e consolatore che si sprigiona, diseguale ed arcano, da versi di lunghezza diversa, indissolubilmente legati da rime non di rado baciate.

La regolarità della metrica tradizionale, la ciclicità delle stagioni e dei mesi dell’anno, i modi petrarcheggianti e l’irrompere improvviso e stridente della “pepsi cola”, dei “deltoidi”; l’irregolarità della vicenda individuale dell’uomo, con l’invecchiamento e la morte sempre in agguato e il suo rispecchiarsi in altre infinite vicende: la realtà è fatta di contraddizioni, come la poesia di Franco Fortini sottolinea efficacemente, e l’intellettuale, il poeta, ha una percezione acuta, drammatica della contraddittorietà esistente tra scelte morali, politiche, religiose e scelte letterarie e artistiche. Una poesia complessa, densa, quella di Fortini, che ricerca un messaggio poetico che possa essere non individuale ma generale: la tensione della sua poesia scaturisce dal dissidio fra il suo scetticismo disincantato e la convinzione “irrazionale” che la propria esperienza abbia un significato.

Arianna Caporossi

“Le ceneri di Gramsci” è poesia attualissima che racconta l’inesorabile perdita di identità di una nazione, identità distrutta dalla pressa dell’economia capitalistica. Pasolini descrive una società di tetre ombre senza più ideali, né storia; un mondo dove il lavoro non è più virtù, poiché l’unico valore rimasto è il possesso; una vita quotidiana in cui non ci si accontenta dell’essenziale, ma si anela all’inutile, offerto ai consumatori in “vetrine / dal rozzo splendore”. I versi del poeta, come parole di profeta, svelano gli immani e freddi ingranaggi del sistema, all’apparire del quale si frantumano illusioni e ingenue speranze di equità e di giustizia. Alla fine, di positivo resta solo la fragile aura poetica di una vita umile e di una felicità ormai lontana, ricordata con nostalgia (“l’ebbrezza della nostalgia, / una luce poetica”).

La poesia di Primo Levi fotografa l’eterna innocenza e purezza infantili ciclicamente macchiate da catastrofi. Ma alla catastrofe naturale di Pompei, che apre il componimento, il poeta associa poi due catastrofi stolidamente volute dall’uomo: l’Olocausto, Hiroshima. È un monito a ricordare, un grido di speranza rivendicata per i più giovani, un serio invito ad avere rispetto dell’altro e del futuro dell’uomo. Le tragedie del passato vanno conosciute e ricordate, per rispetto delle vittime e della loro sofferenza, perché il loro sacrificio rimanga, permanga nella nostra memoria. “Tu rimani”, dice Levi alla bambina di Pompei; “Nulla rimane” di Anna Frank o della bambina di Hiroshima, ma proprio per questo vanno permanentemente ricordate e rievocate. Levi descrive le tragedie volute dall’uomo che si abbattono sui più deboli rimarcandone l’ingiustizia, così come, secoli prima, fece un altro poeta, che visse il tempo dei miti e della religione pagana: Lucrezio. A lui Levi sembra ispirarsi nel verso: “vittima sacrificata sull’altare della paura”. Lucrezio, nel primo libro del “De rerum natura”, raccontava la storia di Iphianassa: ella, vittima di un rito superstizioso approvato dal padre Agamennone, morì immolata sull’altare presso cui pensava di sposarsi; e, prima di morire, comprendendo l’inganno, fu immobilizzata dal terrore: “muta metu terram genibus summissa petebat”, muta per la paura, piegate le ginocchia, si accasciò a terra. È un’immagine di ingiustizia umana molto simile a quelle proposte da Levi, che ci invita a riflettere sui mali provocati dall’uomo. La poesia di Levi, come quella di Lucrezio, è strumento di conoscenza e miglioramento della condizione umana, e come tale è lucida ed essenziale.

Paolo Parrini

L’elegia in morte del padre, il suo ricordo che si stempera nel tempo passato , ma che trasuda un dolore che niente potrà lenire. Vengono in mente altre celebri poesie sul padre, come quella di Sbarbaro, che raccontava scena di vita quotidiana con una tenerezza sublime, o quella di Gatto, mirabile rammentare un uomo e il suo sguardo perduti nella morte del corpo, ma vividi nel ricordo. Ma questa di Strand, questa bellissima, tenera dolorosa elegia ha qualcosa di diverso, è come uno scavare, un rincorrere immagini e sovrapporle. Continuavi a morire… niente riusciva a fermarti… il figlio che rammenta l’agonia che si sovrappone al vissuto e si fa Poesia dell’Anima e di ogni uomo che il Padre ha perduto. Dentro alle pieghe del tempo che non ritorna, troviamo questo dono prezioso, una sorta di suggestione eterea e concreta: il Padre vive ancora, in ogni suo gesto, in ogni piccolezza della sua vita che ora assume funzione simbolica e in qualche modo, dolorosamente consolatoria.

Leggere Dylan Thomas significa entrare in una sorta di mondo parallelo dove non valgono più le nostre povere certezze dove il sole è un sole diverso e i gabbiani e il verde dei rami sono altra cosa. Una vertigine sublime è la Poesia di Dylan Thomas. Un susseguirsi d’immagini come in un flusso di coscienza senza un’ apparente logica flash dopo flash , mentre invece si compone seguendo un ritmo inconfondibile il quadro di una vita, della vita di ognuno di noi. E la morte non avrà più dominio…l’anafora si ripete suadente e carezzevole, ma sono carezze che hanno dentro il fuoco della vita e il gelo della morte inevitabile. Un volo dentro le paure più tremende il soffio del nulla alita su questi versi che però si elevano e sono salvifici nella misura in cui ci lasciamo scivolare in un sogno tormentoso e bellissimo.

Maria Antonietta Rauti

Pier Paolo Pasolini: poliedrico, eccentrico, poeta di Casarsa, mai sconfitto, mai crocifisso realmente. Risorge dopo il giorno dei morti, festa continua alla vita oltre i limiti. Personalità forte, terribile nel suo essere diversamente vero, combattivo e nuovo. La modernità del suo pensiero fa tremare. La sua poesia risorge fra le “Ceneri” ogni volta che la si rispolvera, ogni volta che lo si richiama con la sua stessa forza di superare i preconcetti, sconfitti a priori. Da Casarsa, a Bologna, a Roma le sue Ceneri ritornano alla vita, rivivono tra le pagine delle Università e riecheggiano ogni volta che si incontra il suo nome che è in se stesso, ormai, icona senza tempo di poesia e grazia nel ricordo di chi lo ha incontrato ed amato… Grazie Pier Paolo!

Marco Capecchi

Credo, ma posso sbagliarmi che sia stato Contini a riconoscere a Buttitta ciò che si meritava. Un Poeta grande che sa utilizzare il dialetto portandolo a vette europee. Fratello in questo del Pasolini dell’usignolo della chiesa cattolica. Ricordo quando a Certaldo in una piazza gremita da cantastorie recitò le sue poesie incantando tutti. Questa sua capacità di far vivere nella cultura popolare la poesia alta rimarrà il più grande dono e viatico in quest’epoca di passioni tristi e immanenza satura di volgarità.

Dina Ferri: quando l’innocenza del cuore si approssima alla poesia

Roberta MestrelliBerti

Ho riletto con interesse “Con gli occhi chiusi”, ma nei racconti e in altre opere di Tozzi ci sono pagine così… crude che non riesco a leggere, tanto fanno male.

Matteo Mazzone

La poesia di Montale si caratterizza, da un lato, per il rifiuto di una letteratura aulica ed estetizzante e, dall’altro, per una ricerca di una rinnovata voce, pur sempre tradizionale, un abbassamento tonale del lirico, che si fa narrativo specchio sociale, fatto attuale tradotto in figure e in simboli, dove anche il linguaggio sublime – che non scompare del tutto nella frequente presenza di preziosismi lessicali – subisce uno slittamento diafasico, dal formale tout court all’insediamento di un informale bilanciato, tenero. Ora il filosofare montaliano, il suo pensiero poetante trovano coraggio a esporsi nel silenzio assordante della ricerca, dell’indeterminatezza umana ed esistenziale: ora è bello lo scoprire una verità causale, demiurgica e confortante; un’epifania (il)logica, razionalmente concepibile, che ci aspetta tutti in fondo a un varco. Il varco, appunto: l’unico “attraversamento” creatosi tramite una particolare congiunzione, lo stato di grazia, rarissimamente rassicurante perché implicito, dis-illusorio, verace.

Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: Palazzeschi, ora, acconsente al registro del comico, ma non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Una poetica “abbassata”, concettualmente e stilisticamente anti-borghese, al di là di ogni confine estetico del bel parlare e del bel comporre. Tutto muove dalla realtà, dagli oggetti, dalle immagini: una semplice porta (e chissà da quanti schifata, proprio per la sua scialba e banale presenza nel mondo) si trasforma in avvio poetico (ed etico) per una personalissima riflessione, che con apparente leggerezza affronta un tema-tabù tanto spaventoso quanto spaventevole come la morte. Così, Palazzeschi s’impone ancora una volta – nel variegato panorama letterario del nostro Novecento, come grande e profondo intellettuale, che ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, ridandone colore e calore, vitalità e spumosità. Questo è stato (e ancora oggi è) un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo e del nostro tempo.

tristan51

In un “universo schiacciato” come quello che l’opera di Tozzi ci propone è inevitabile ravvisarvi un forte anelito alla leggerezza, alla liberazione dai vincoli della pesantezza avvertita come una inesorabile condanna: il desiderio di un’anima. È così che, invece di rivolgersi ancora una volta alla propria anima incerta perfino della propria esistenza, Tozzi a chiusura di “Bestie” chiede ad una naturale e letterarissima allodola di prendere la sua anima, di farla finalmente volare.

Le tentazioni della musica attive in Gatto, costantemente preminenti… Ciò nonostante l’inconsapevole mano rilkiana che sa di scrivere qualcosa di ignoto non rinuncia a forme di coscienza inquadranti, a garanzie di qualità appannaggio della facilità melica che implicano per Gatto, fin da altezze cronologiche antiche, da avvio di percorso e con tutta probabilità da input stesso del processo, una comunanza di destino allargata: una pregressa “storia delle vittime” da rinvenire all’insegna della morte e delle possibilità di auscultazione del silenzio, in un’amorosa possibilità di interscambio e di recupero del canto ad essa connessa. A questa storia comune, a questa sorte condivisa, drammaticamente umana e drammaticamente deperibile, il poeta immediatamente si annette, orientando il suo massimo dono ricevuto per spartirlo, a patto di deludere quanti vorrebbero da lui e dalla sua poesia altri indirizzi, altri rigori, altri generi di coinvolgimento

Greta Fantechi

In “L’invitation au voyage” Baudelaire celebra magistralmente, attraverso la metafora del viaggio, il tema dell’evasione rispetto a un contesto storico-sociale percepito come estraneo e nocivo. Questo viaggio sentimentale, carico di suggestioni esotiche e a tratti quasi “olfattivo”, evoca una terra immaginaria simile all’Olanda, il cui paesaggio – che sembra estrapolato da un dipinto di Vermeer, come suggerisce anche il riferimento alla “calda luce” – riflette sia lo stato d’animo del poeta-vagabondo, sia le sembianze della misteriosa figura femminile: interessante è, infatti, la concezione di una Bellezza antitetica a quella della donna-angelo, ambigua, insidiosa, ammaliatrice, il cui sguardo intriso di lacrime, sebbene non elevi alla salvezza, accompagna comunque il poeta nella ricerca di una patria elettiva fuori dal mondo, dove il suo animo in esilio possa finalmente trovare pace. «Là non c’è nulla che non sia beltà, ordine e lusso, calma e voluttà» sembra, infatti, richiamare alla mente proprio una sorta di “Paradiso dell’Esteta”.

L’“Orfeo nero cantore della Negritudine” Senghor ci ha offerto una poesia rivoluzionaria, seppur, in apparenza, sovranamente digiuna di politica. Attraverso questo viaggio poetico Senghor celebra, con una limpidezza senza pari, il sentimento d’amore verso il proprio continente, ed abbraccia, con il suo “corpo-nazione”, l’intero popolo femminile africano. Il contenuto scandalistico di Femme noire non scaturisce, a mio parere, dall’audace, squisito ritratto di un’anonima Venere nera naturalizzata francese, né tanto meno, dalle intorte spirali d’erotismo che sembrano avvilupparsi sui versi del componimento, ma dall’atto di “carità poetica” di Senghor, volto a spezzare quelle catene mentali del pensiero filo-occidentale che costringono la Donna africana alla funzione stereotipata di marionetta dal linguaggio inarticolato, cui rivolgersi con un altrettanto storpiato francese, assoggettata a dinamiche e compromessi da salone parigino degli anni ’30. La “ribellione poetica” di Senghor consiste, infatti, nel “decolonizzare le coscienze”, nell’affermare e nobilitare l’umanità della Donna di colore, elevandola al grado di essere umano e provocando nel lettore bianco quasi una sconcertante sensazione di spaesamento. Come già osservava Sartre: “Noi ci sentiamo come esclusi, come se queste parole, che non ci sono destinate assolutamente, le origliassimo dalla porta e come se questa donna nuda la spiassimo dal buco della serratura. E anzi, addirittura la nostra bianchezza, di cui andavamo tanto fieri, all’improvviso ci appare come una maglia logora, ai gomiti e alle ginocchia, e se potessimo ce la toglieremmo per scoprire la nostra carne di vino nero, un altro verso di Senghor”.

Ilaria 77

Una lirica forte e schietta, la madre, personaggio quasi eroico, incorrotto, nella sua fede pura ed elementare si erge di fronte a noi con una fermezza quasi mitica, pur nella vecchiaia e nel tremore delle sua membra. Si conferma la densità espressiva dell’Ungaretti dell’Allegria.

Valentina Fiume

Cristina Campo… Autrice straordinaria, le cui poesie sono di rara bellezza, compiute nella loro armonia liturgica. La ricerca dell’esattezza del verso e la predisposizione, ereditata da Simone Weil, all’esercizio dell’attenzione indubbiamente tradisce la segreta frequentazione delle corde mistico-contemplative del suo dire poetico. Alcune liriche profumano di un certo aroma bizantino, muovendosi sulle tonalità dell’oro e dell’azzurro, complice lo studio di alcuni autori orientali. Tra le sue numerose frequentazioni ricordo quella fondamentale della filosofa spagnola María Zambrano con la quale condivideva l’amore per i mistici – in particolare per San Juan de la Cruz di cui Campo fu anche traduttrice – e la comune ricerca del silenzio quale condizione imprescindibile per accogliere l’avvento dell’Altro. Proprio a Zambrano scrive di aver fatto un viaggio nella notte senza esser tornata del tutto. Una poetessa che merita di essere letta e studiata…

Daniela Del Monaco

Montale ha descritto l’angoscioso istante rivelatore in cui avviene la scoperta del nulla. Sorpresa infatti dal gesto di voltarsi improvvisamente, la realtà si è rivelata nella sua inesistenza. Il successivo risorgere dell’illusoria realtà consueta non può cancellare l’esperienza miracolosa che il poeta dovrà chiudere in se stesso. Gli altri uomini che non si voltano mai ignorano tale inganno, anzi, vogliono ignorarlo. “Perché le apparenze non durano”? si chiedeva Ungaretti, “Perchè crei, mente, corrompendo”?

Ferruccio Palmucci

“Fra tutte le cose certe, la più certa è il dubbio.” Non so se questa frase Brecht l’abbia pronunciata davvero oppure è solo il succo del suo pensiero, ma poco importa perché serve a introdurci subito al cuore della poesia “del giorno.” Se Brecht fosse stato un filosofo, si sarebbe aperta, su questo invito a dubitare, un’infinità di riflessioni sulla Verità, oggetto di tutte le filosofie che si rispettano. Ma Brecht è tutt’altro che un filosofo. E’ un uomo impegnato nel dibattito culturale del ‘900, concreto, attivo, che si ripropone col suo teatro l’educazione del popolo verso una maggiore consapevolezza del ruolo chiamato a svolgere nella trasformazione della società. E allora ecco il richiamo: il “rotolo cinese” con l’apparizione dell’ “uomo Seduto che tanto dubitava” il quale ammonisce: Badate a non illudervi di aver risolto subito un problema. La forza delle idee sta nella capacità critica, nel porsi domande e non essere mai soddisfatti delle risposte, nel dubitare, finché, superati pregiudizi, falsi timori, soggezioni e deferenze, il dubbio non si traduca nell’agire concreto. E la forza di questo richiamo fa del dubbio non uno sterile esercizio intellettuale, ma l’approfondimento della ragione critica: “Siete realmente nel corso degli eventi, compresi con tutto quel che diviene? Il richiamo alla storia ,maestra di vita, è fondamentale. “Siete ancora nel divenire voi?” E qui compare un termine squisitamente filosofico: il Divenire contrapposto all’Essere. Ma per Brecht, marxista e positivista, il divenire” non è “il mostruoso oceano del tracimare e trapassare” di Nietzsche, ma il cammino della storia, dei rapporti concreti di produzione fra gli uomini, in vista di una società giusta. E allora ecco l’invito finale all’azione, perché il pensiero disgiunto dall’azione è quello del filosofo che pensa chiuso nella sua “Torre d’avorio” e non servirà mai a cambiare il mondo: “Prima di tutto e sempre e ancora prima di ogni cosa” pensare a “come si agisce.”

“Fummo creati uomini e non angeli …” scrive Miguel de Unamuno. ” Il Cristo della fede cristiana non si fece angelo, ma uomo, assunse un corpo reale ed effettivo e non un’apparenza …” Ho voluto citare questo passo tratto da “Del sentimento tragico della vita” del filosofo e scrittore spagnolo per andare al cuore di questa poesia della Gualtieri. Siamo corpi. In questa parola c’è tutto ciò che siamo, compresa quell’ “idea” incorruttibile che, Platone e S. Agostino hanno separato dal corpo chiamandola anima, a sé stante, autonoma, in contraddizione con la stessa corporeità del cristianesimo delle origini. Questo corpo fa dire alla poetessa, con rimpianto: “Quanta nostalgia avremo dell’umano.” Ad esso è chiesto di esprimersi con dolcezza e gentilezza, con delicate carezze, con sottili attenzioni psicologiche, con sfioramenti delle guance. E’ la preghiera che un corpo “affettivo e fragile” rivolge a un altro corpo: “essere maneggiato con cura”, con la “cautela dei cristalli”, essere toccato con leggerezza; una richiesta di soavità e di grazia perché “è breve il tempo che resta.” Dopo verrà la “nostalgia dell’umano”, la stessa che tormentava i disincarnati dell’Ade, ombre vaganti col ricordo struggente del mondo in un luogo senza spazio né tempo. Ieri ombre. Oggi, in ossequio all’onnipotenza scientifica, “scie luminosissime, fotoni lucenti”, meno lugubri e tristi, ma non meno freddi, non meno spogli e disadorni. Forse saranno soddisfatti l’anelito di “infinità” e di perfezione, il desiderio di pace, la contemplazione che reca in sé la felicità senza turbamento, senza tumulto dell’anima, ma “non avremo le mani”. Con che cosa sfioreremo allora il volto bisognoso d’amorevolezza? Con che cosa comunicheremo un’emozione o un palpito del cuore? “La vita ha bisogno di un corpo per essere …per l’incastro dei compagni d’amore.” Sublime elegia della corporeità questa poesia della Gualtieri. La brevità della vita è simile a un battito d’ali. Sia dunque, questo breve tempo, un soffio d’eternità. Il corpo si faccia anima tenera e delicata, esprima tutto l’amore di cui è capace, e lo faccia con la leggerezza della farfalla che ha cura di “ogni meccanismo di volo” fra lo “schiudersi” e lo “svanire” delle foglie, “fino al fenomeno della fioritura.

Antonella Bottari

L’ombra, la luce (come speranza ed anelito all’Assoluto) e la forte adesione del potere della vita – una vita fatta di sacrificio e sofferenza, il fiume della vita, potremo dire, rubando al Verga una sua famosa definizione – erano le caratteristiche di base della poetica di Carlo Betocchi. I tetti delle case intesi come simbolo riassuntivo dell’operosità umana vista come derivazione divina; e lo sono pure la Luna, quasi onnipresente in quanto propaggine divina, e ancora le stagioni, le creature che popolano il mondo e la fede profonda e insita nell’animo dello scrittore. Leggiamo, dunque questo inverno betocchiano su cui volteggiano farfalle, creature delicate, alate, verosimilmente pensieri, sogni. Tutto accade in un giardino estatico, saturo di profumi e di voli leggiadri per mezzo dei quali la spiritualità del poeta, intesa nel senso di una profondità di pensiero intimo e raccolto, si libra delicatissimo, similmente al volo delle ineffabili creature della sua primavera. La Luna, aspetto metafisico spesso apparso nella poesia betocchiana, legame imprescindibile alle cose umane, tra la terra e il cielo, ora è un pallido cenno della vita che, giunta al tramonto, nutre le sue aspettative di quell’essenza ebbra di voli che le creature disegnano sullo sfondo di un pomeriggio d’inverno, forme di pensiero, ansia di libertà dalla caducità terrena.

Una realtà enigmatica e perciò stesso ostile, una realtà mossa da un’irridente energia, che mimetizza le disarmonie e le sofferenze della vita. Questo è il mondo di Sylvia Plath, Lady Lazarus, che si rivolge a questo coagulo d’esperienza con l’aria e il piglio di una donna pronta alla sfida finale: in cuor suo sa d’essere diventata invincibile, la sua profetica parola ha sconfessato ogni finzione e ciò la rende eterna. Eternamente viva, ancora e sempre si libererà dal peso delle esperienze negative vissute con la percettibilità dei sensi: i nauseanti odori, gli occhi stanchi per aver visto la mostruosità di una vita che abbrutisce l’anima, il dolersi e mordere la propria coda per quel senso di sospensione e di non appagamento, l’inutilità del linguaggio che non porta comunicazione e partecipazione, ma solo fraintendimento, saranno finalmente solo un ricordo. Il “sepolcro”, la fine di una vita, così tremendamente snaturata e squallida, sarà smascherata da una donna che ogni volta tornerà a sorridere, fiera, libera, simbolo della verità conquistata nel sacrificio. E ancor più può sorridere, perché le son bastati appena tre decenni, per svelare e rappresentare l’orrido vero. Sul palcoscenico della vita si sviluppa un doppio dramma, quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, e quello degli uomini sciocchi e curiosi, una folla impersonale che non muta in alcun modo l’ inferno morale nel quale lei si trova. E agli astanti si rivolge, ribadendo d’essere sempre la donna animata dal desiderio di cogliere la verità: e a nulla varrebbe risorgere in altro corpo, perché nessuno la individuerebbe. Così che un gesto eccezionale e anormale che verrebbe catalogato come insano atto derivante da una follia circoscritta, diventa espediente per ricordare e risvegliare l’attenzione; quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, è un sacrificarsi, un far discutere sul perché delle sue scelte, che diventano simbolo di una genialità eccezionale, che sorge e si manifesta in differenti modi, anche quelli più strani. Su queste basi la ripetitività ossessiva, quasi maniacale, che appare come una condanna, resta l’unico mezzo logico-razionale per lanciare un messaggio di fede e di speranza. Sylvia Plath, Lady Lazarus, non recita una parte, si fa ed è personaggio tragico, è la creatura che deve consumare necessariamente il suo gesto, come se il suo fosse un atto cerimoniale che sorge da manifestazioni miracolistiche. E lei attende il suo pubblico, aspetta che la platea si riempia, che tutti osservino il momento del suo morire e risorgere dal fondo del teatro, con lo stesso corpo, solo con qualche cicatrice in più. È nel suo morire e risorgere che Sylvia Plath, prende coscienza d’essere fatta della stessa sostanza divina, e come il Cristo si ripropone, affronta un’ennesima prova, quella più impegnativa, per la quale il suo io si scontra con il silenzio e l’assenza d’ogni risposta. E, dalle polveri incenerite di un sentimento e di una fede, Sylvia Plath, declama il suo avvertimento, la sua promessa di un ciclico ritorno, un ritorno d’amore, lo stesso amore divino che alita sul mondo, perché il respiro s’accenda.

Pietro Paolo Tarasco

Luzi
dai suoi profondi occhi, dalle sue dolci e pacate parole, dai suoi lunghi silenzi di meditazione ed alcune volte di sconforto (ricordo il telegiornale che abbiamo ascoltato insieme a casa sua a Pienza il 21 Settembre del 2001, era ancora tutto dedicato “all’11 Settembre”). Immagini strazianti, io ero accanto a lui, eravamo soli. Lui scuoteva lentamente il capo, il volto si rabbuiò all’improvviso ed io, in quei momenti avevo molto imbarazzo nel rivolgergli anche lo sguardo. Pensavo a lui, alla sua sofferenza di un uomo che per una intera vita aveva comunicato al mondo con sublimi parole di speranza e di pace. Il suo sconforto era grande.

Rosalba de Filippis

Mark Strand
… “Padre che muori tutti i giorni un poco”. Neanche noi vorremmo che morisse questo padre. Che poi sarebbe il nostro. E noi siamo vuoti come una stanza, come solo uno spazio sotto gli alberi può essere vuoto di un padre. Noi che siamo riassunti in quelle radici, del resto sappiamo che se i padri non smettono mai di morire, in fin dei conti non muoiono mai.

framo

“The vital part of my message, taken from the sap and the fibre (of America), is the same as his” (da “What I feel about Walt Whitman” di Pound). Prendendo spunto dal serissimo gioco sostitutivo proposto da Pasolini nella celebre intervista – e concedendomi altre minime licenze e aggiustamenti – chiamiamo a raccolta Whitman, Pound e Pasolini, tre colossi della poesia universale, qui in spirituale compresenza, tra(s)ducendo così la precedente citazione: “la parte vitale dei nostri messaggi, tratta dalla linfa e dalla fibra, ma anche dalla radice del cosmo della poesia autentica, ci coappartiene”. È una linfa che dalle radici scorre nel tronco e ridiscende dai rami di “creature sì alte”, un patto di linfa panico che, penetrando, ridà vigore e affratella chiunque si avvicini, per essenza di “albero”, “muschio” o “violette trascorse dal vento”. Resisti lucida, poetica follia, così salubre e necessaria al nostro miserrimo e sempre più greve “mondo”. Che giganti.

Il poeta-giardiniere e la sua opera-fiore, in quanto corpi tra corpi e parti del mondo esistente, condividono la durata fenomenica dell’attimo e la pari condizione di essere elementi di un tutto reale, precedente e successivo alle loro specifiche individualità. La spinta a resistere alla finitudine, però, può proporsi solo per la poesia che, se ben concepita e assecondata nella sua naturale e vigile costruzione – anche se non subito compresa e fortemente osteggiata – potrà aspirare a preservare un valore extratemporale, in ogni tempo e luogo. Proprio ciò che è accaduto all’opera-monumento di questo gigante della poesia universale. Mirabile, imprescindibile Osip Mandel’stam.

Giulia Bagnoli

Il 22 marzo del 1950 (stessa data della poesia) nel “Diario” Cesare Pavese scrive: “Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale”. La partenza della donna amata avvicina il poeta al pensiero della morte ed è una morte interiore; una morte dell’anima. Il giorno dopo, sempre nel Diario, scrive: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma”. Questo “morire con clamore” preannuncia il reale suicidio del poeta che avverà cinque mesi dopo. Si tratta di una morte scelta e ragionata. Da questo giorno in poi ogni pensiero di Pavese sembra una pianificazione del gesto estremo. Del resto, non è per amore di una donna che ci si uccide, come scrive il 25 marzo, ma perché “un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. C’è forse qualcosa da dire, che non sia una banalità? Personalmente Pavese mi suscita un profondo silenzio. Immenso!

Un’altra giovane donna, Dina Ferri, che meriterebbe di essere studiata, per sottrarla a quel tragico destino del “Mai piu” che sembra avvolgere ogni cosa. Che la dimenticanza e una seconda morte. E la piu terrificante. Una poesia semplice, quasi la voce silenziosa di un bambino che si affaccia alla vita e non la capisce, eppure con la complessita di quegli eterni interrogativi. Ci troviamo di fronte al mistero della vita – e della morte – col tempo che passa inesorabilmente, dove il “mai piu” e anche “il non essere mai”.

Aretusa Obliviosa

Basta leggere anche velocemente questa poesia per sentire il forte legame con “La pioggia nel pineto” e comprendere come “Alcyone” risponda ad un disegno e ad una struttura ben precisa. Ci sarebbe molto da notare, a cominciare dal recupero del mito classico – come non pensare all’omerico accusativo alla greca “braccio bianco”? – tutto rivisitato in chiave novecentesca, ovvero con la panica sensualità che di D’Annunzio e in particolare di “Alcyone” è propria. Ma i rimandi sarebbero innumerevoli data l’onnivora fame citazionale dell’autore. E certo proprio la grande capacità di filtrare le innumerevoli fonti e di derivarne una lingua poetica e una materia narrativa peculiarmente sua ne fanno, assieme a Pascoli, una pietra miliare del nostro primo Novecento, uno spartiacque fra passato e futuro da cui i poeti italiani delle generazioni a seguire non potranno prescindere. Ne è la prova il giovane ma già immenso Montale degli “Ossi”, come con cognizione nota Marchi, ma ancor prima Dino Campana, che nel recupero di certi miti, di certi assolati e panici paesaggi e soprattutto nel cantilenante reiterare di sintagmi e immagini deve tanto al pescarese.

Mi si conceda infine una nota affettiva: il ricordo di una bellissima lezione del Professor Luti sulla struttura e composizione di “Alcyone”, di lui che sarà sempre per me maestro di sintesi e di chiarezza, e un saggio sul primo Montale del Professor Marchi, che a detta di due colleghe ed esperte studiose montaliane rimane, a distanza di anni, un ottimo e validissimo studio sull’autore.

Ho sempre pensato alla poesia civile di Pasolini come ad un grido di rabbia e di amore per la sua Italia. È così in tanti versi delle “Ceneri”, ed è così quando scrive: “Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti”. L’eterno ritorno alle radici culturali del suo e del nostro paese è necessità di riconquistare il proprio spazio vitale e al tempo stesso voce insopprimibile di chi vuole risvegliare da un avvelenato torpore questa nostra terra addormentata. Caro Pierpaolo, siamo ancora qui a chiederci, oggi più di ieri, come poterla svegliare e scuotere questa nostra Italia, sopita dai troppi affari sporchi, dalle collusioni e dalle corruzioni, dai troppi corpi insanguinati rimasti insepolti, dai polverosi e ammuffiti archivi segreti, dalle oscure trame di potere e dalle assordanti e interminabili propagande, cullata da un mare ormai diventato cimitero e travolta da un onda inarrestabile che non si fermerà e che segnerà la sua fine o il suo inizio. Quanto avremmo bisogno di tornare a sentire la tua voce!

Yumiko Nakajima

Ho letto le poesie di Primo Levi e soprappongo le tragedie di Olocausto a quelle delle città danneggiate dalla bomba atomica. Ora, in agosto, e’ il proprio momento di ripensare le tragedie di Hiroshima e Nagasaki e recentemente ho consultato sulla storia e sui danni dalla bomba atomica. Anche penso che noi dobbiamo pensarci di abbandonare i crudeli armi nucleari.

Artur Spanjolli

Lui stava sempre là. Nella penombra della sua camera invasa dal disordine dei libri. Pile intere che si intromettevano spezzando la plcidità malinconica del meriggio. Seduto nella sua sedia di vimini. Occhi munuti con le borse esagerate, sgardo mite e sorridnete, capelli radi d’argento in disordine, le sillabe a volta strascicate come se venissero dalla profondità dei decenni. Infatti era un uomo del passato. Un uomo della storia. Come conciato dagli improperi delle epoche. Spesso non diceva nulla e chiudeva gli occhi da 90enne, poi giocava con la protesi dentale e si rimetteva in moto con la sua mente brillante che ricordava tutto in lettere, storia, poesia. Andare da Mario Luzi era più che andare all’estero. Era come visitare le epoche. Il fascismo con i suoi soprusi, la guerra, i poeti del 900, Montale, Ungaretti, Quasimodo, Saba, Bilenchi, suo amico scomparso. Spesso si parlava in modo caotico a mia richiesta su poeti dell’oltre, dell’altrove. Borges, Rimbaud, Verlaine, Poe. Per ogni argomento letterario aveva la sua camera codificata in parole, idee e opinioni, aveva nella sua memoria un intero mondo dedicato alla loro scrittura. Era una felicità inesprimibile per me parlare con Luzi. Teneva vivo dentro di me il fuoco delle lettere e sempre riusciva ad accendermi dentro il fuoco sacro delle lettere. Mi ricordo una volta gli lessi una poesia sull’eco nel tempo di una battaglia di Carlo Magno e volle che gliela leggessi nuovamente. Luzi per me era l’enciclopedia universale, ma non quella morta dei volumi Treccani, era invece l’enciclopedia vivente della memoria letteraria, il cuore pulsante della ragione letteraria che analizzava la storia e la letteratura e dava a me, a noi l’essenza, il riassunto saggio, la sintesi. E la sintesi la sanno fare solamente i grandi letterati…

Sabina Candela

Attendiamo tutti con trepidazione l’uscita di una nuova raccolta. Credo sinceramente che Giacomo Trinci rappresenti una delle più originali e belle voci del nostro attuale panorama.

Lorenzo Dini

È assolutamente vero che Pasolini non appartiene a nessuna patria e nessuna casa può proteggerlo dal suo interiore rovello. Si pensi infatti all’ultima sontuosa dimora nel Viterbese, la torre di Chia. Pasolini lì compose le ultime opere, fra le quali “Petrolio”. Per il carattere fluviale, digressivo ed episodico, della ‘forma’ immaginata, “Petrolio” prolifera di neoplasie narrative e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere un contenitore di materiali eterogenei che si accompagnavano a frammenti di marca autoriale (come del resto egli aveva già realizzato con le fotografie nell’ultimo capitoletto – “Iconografia ingiallita” – della “Divina Mimesis”). E infatti probabilmente in questo romanzo ‘summa’ avrebbero trovato la loro collocazione le fotografie di Dino Pedriali, scattate nella torre di Chia. Là, nell’intimo della cella monastica che lo protegge, Pasolini si mostra nudo: col sesso scoperto e con le braccia magre di vecchio, si espone attraverso le grandi vetrate di Chia, che anziché costituire una chiusura dello spazio, lo aprono all’esterno, o meglio è l’esterno che invade lo spazio intimo. Quando Pasolini mette le mani a binocolo sugli occhi sembra dirci che sa di essere spiato, usa le mani come i Signori scellerati di “Salò” usano il binocolo per osservare le torture, ma i ruoli vengono rovesciati: siamo noi i torturatori. Proprio quando Pasolini sembra che apra il suo spazio intimo agli spettatori, lo fa capovolgendone il valore e mostrandosi ancora una volta, in un ultima e tragica esibizione del sé (“expostio sui” è termine di Foucault) con la potenza del proprio corpo (“ultimo baluardo di realtà”, come tragicamente afferma nell’articolo “Abiura dalla Triologia della vita”) reso eterno per la morte dalla luce catturata dalla macchina fotografica. Un fotogramma, come diceva Longhi a proposito di Caravaggio.

Nella “Chimera” di Dino Campana il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

Giancarlo Giancarli

Nei versi raffinati di Cristina Campo il dolore trapela dall’antitesi, dall’accostamento ossimorico dei termini, e, seppure compostamente e misuratamente espresso non per questo ci appare meno desolato e intenso, meno profondo. Non è poesia facile, quella della Campo, ma una più attenta lettura ci permette di intuire il senso delle immagini, di quel roseo ulivo, di quell’orcio pieno d’acqua; il senso di quella luna del lungo inverno, di quello sdoppiarsi dell’autrice nei due versi finali. E il gelo che prova nella sua lieve tunica è il gelo che avvolge la sua anima appassionata nella solitudine della fine dell’amore.

Chiara Scidone

Lo stesso tema, due epoche diverse. Montale fa un omaggio a D’annunzio e allo stesso tempo vi si contrappone. Il meriggio di Montale è costituito da tanti particolari: dai rumori delle serpi, dei merli ma anche dal nulla e dalla solitudine che si nascondono dietro all’impossibilità dell’uomo di vivere, di scavalcare un muro invalicabile con i cocci di bottiglia alla sommità. Il “muro” è il limite dell’uomo, così la sua vita diventa priva di senso. Invece il meriggio D’annunziano è caratterizzato dal silenzio e da una descrizione minuziosa della natura. Il poeta, diventa parte integrante di essa e riesce a percepire una sensazione di infinito. E così “Ogni traccia di uomo è perduta”.

In questa poesia ci sono tante domande, le domande che Palazzeschi si pone in molte delle sue poesie: “chi sono ? “…  Lo sconosciuto, il diverso, forse un po’ come si sentiva lui stesso e come a volte ci sentiamo un po’ tutti. Ma lo sconosciuto sa guardare dove gli altri non guardano, in un posto lontano e indefinito, un posto che solo lui conosce, posto bellissimo come la riga di luce che lascia il tramonto.

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