‘Notizie di poesia’. Dicembre, il post del mese (Ferri, ex aequo, con i vostri commenti)

Firenze, 28 dicembre 2019 – Vincono alla pari due poetesse, una statunitense, ottocentesca e notissima a livello internazionale, l’altra italiana, primonovecentesca e ancora in attesa di un più congruo riconoscimento da parte della critica e del pubblico. Un bell’ex aequo al femminile che vede protagoniste Emily Dickinson e Dina Ferri, rispettivamente con i post Una carrozza […]

Firenze, 28 dicembre 2019  Vincono alla pari due poetesse, una statunitense, ottocentesca e notissima a livello internazionale, l’altra italiana, primonovecentesca e ancora in attesa di un più congruo riconoscimento da parte della critica e del pubblico. Un bell’ex aequo al femminile che vede protagoniste Emily Dickinson e Dina Ferri, rispettivamente con i post Una carrozza per l’eterno. Emily Dickinson e Dina Ferri, poetessa pastorella. Attenendoci rigorosamente al criterio alfabetico ieri abbiamo celebrato il successo della Dickinson, mentre oggi è la volta di quello della Ferri. Al secondo gradino del podio di fine anno uno scrittore in prosa (e integralmente, convintamente in prosa) come Italo Svevo è stato, affermatosi con il post anniversario Buon compleanno a Italo Svevo, al terzo gradino lo scrittore austriaco Peter Handke, neo-Premio Nobel per la Letteratura, con il post Quando il bambino era bambino. Peter Handke. Buoni piazzamenti infine per altri due poeti stranieri di notevolissimo spessore come l’ancora austriaco Rainer Maria Rilke e il canadese-statunitense Mark Strand, rispettivamente apprezzati e commentati in L’autunno cosmico. Rainer Maria Rilke e Cos’era. Mark Strand.

Tra i vostri commenti dedicati ai testi di Dina Ferri che abbiamo proposto segnaliamo quelli di Isola Difederigo, Elisabetta Biondi della Sdriscia e Feruccio Palmucci. Rispettivamente: “Strana creatura Dina, così obbediente al festoso richiamo della natura, e così docile al fascino segreto della scrittura fin quando questa diventa per lei, per i suoi vent’anni irreparabilmente segnati dall’immagine della fine, un allarme e un rimorso. Oltre le circostanze di un “caso” umano e letterario, Dina continua a parlarci oggi, dalla sua solitudine piena di silenzi e di tante voci, con la forza e l’evidenza lirica di una vera scrittrice; una di quelle, come avrebbe detto Luigi Baldacci, che non lasciano le cose come stanno”; “In Pascoli e nei suoi versi colmi di una malinconia tormentata, legata ai traumi di un’infanzia precocemente e tragicamente privata del nido familiare, Dina Ferri ritrovò la stessa struggente malinconia che tormentava la sua giovane anima. Un’anima nata per la poesia e alla poesia, poesia essa stessa, che nei modi ‘pascoliani’, espresse quindi il suo delicato sentire. Purtroppo la sua vita spezzata nel fiore degli anni – nella sua malinconia vi era forse struggente presentimento di un futuro di morte imminente? – non ci permette di assaporare il frutto poetico maturo che certo avrebbe saputo ridimensionare la forte presenza del modello, facendo così risaltare maggiormente quei non pochi segni di originalità che già illuminano la sua giovane poesia. Eppure già così versi lasciano in noi una traccia. A proposito del documentario: questo “Incompiuto canto” è di una bellezza struggente. Con le sue immagini, i suoi colori (i vividi colori dell’estate nella campagna senese!) che si alternano al nero seppiato delle vecchie foto ci propone un ritratto indimenticabile della poetessa pastorella”; “Un grande talento poetico stroncato in giovanissima età, ma non abbastanza da non lasciarci perle di lirica bellezza e un sentimento mistico della natura. Cuore della poesia di Dina Ferri è infatti il sentimento della natura vissuto come inquieto piacere ed estatico abbandono; una simbiosi perfetta con l’ “Anima Mundi” di cui tutti gli esseri sono parte inconsapevole, ma alla cui dimensione inaudita i poeti, in virtù di un “miracolo”, accedono con parole ed immagini che nessuna parola o immagine conosciuta saprebbe ridire. Lo stupore della Ferri dinanzi alla natura è la felicità di chi sente “sommesso, un coro di voci cantare al cielo e al sole” e vuole “rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.” Ma è anche lo stupore per il mistero che altre voci evocano in lei quando “fugge nella notte nera/ …per ascoltare il vento e la bufera”; quando ammira “le stelle nella notte scura” e “trema di freddo e di paura”; quando vorrebbe passare per “l’incognito sentiero …fuggir per valli” e attendere a sera il ritorno delle greggi mentre “piange la bufera.” Immagini che rimandano al cuore dell’arcano universo che batte all’unisono col cuore degli uomini e che comunica il brivido di trepidanti emozioni. La poetessa pastorella, voce di quell’ “Anima mundi” che così bene ha trovato in lei l’espressione del proprio infinito, chiederà, forse presagendo la fine, “a le stelle del cielo turchino,/ a la notte vestita di nero” l’ignota ragione del proprio destino, “il ritorno alla luce che fu.” Ma la risposta sarà: “Mai più!” Un destino crudele reciderà questo fiore sublime all’età di 22 anni con un’insensatezza che non troverà mai una spiegazione plausibile. Gli uomini sono destini, tutti diseguali nel dolore e nella gioia, nella vita e nella morte, tutti assurdi. Degli uomini restano le opere, alcune immortali, come la poesia, voce dell’infinito che è in noi, che proviene dal mondo dell’indicibile al quale forse, come fu detto per la dimensione divina, nessuno può accedere e rimaner vivo”.

Ancora buone feste a tutti voi, sempre in compagnia dei nostri poeti, e ancora auguri per un 2020 sereno e felice!

Marco Marchi

Dina Ferri, poetessa pastorella

Firenze, 18 dicembre 2019 – Chi conosce, al di fuori dei confini senesi e al di fuori della cerchia dei letterati specialisti, Dina Ferri? Una “poetessa pastorella” nata nel 1908 ad Anqua di Radicondoli, nella campagna di Siena, da una famiglia di contadini, prematuramente scomparsa a poco più di vent’anni, che fu per un momento, fugacemente, perfino un caso letterario nazionale. Un naturale talento, una ragazza abitata dalla poesia,  depositaria obbediente di un “canto” rimasto “incompiuto”, ma anche così, solo incipiente e presto interrotto, suggestivamente affascinante e destinato a commuovere: a toccare l’anima, ad incidere e a lasciare traccia.

Di lei si interessò a suo tempo, pure a livello concretamente biografico di solidale assistenza e indirizzo culturale, il marchese Piero Misciattelli, l’autore dei “Mistici senesi”, il curatore di edizioni cateriniane, l’amico estimatore del grande Federigo Tozzi. Grazie a lui, con una sua introduzione, uscì nel 1931 una silloge degli scritti della Ferri: testi in versi e in prosa, “frammenti – così erano definiti – dal diario lirico di una pastorella senese”, dal titolo bellissimo, evocativo, davvero degno di una seguace “casta” e “vigorosa” di Santa Caterina e dei trecentisti, Quaderno del nulla.

Sì, Pascoli, i pascoliani, le inevitabili reminiscenze delle letture effettuate sui banchi di scuola ravvisabili nelle sue quartine e nell’immaginario stesso, tra referenti realistici e fantasia, alla base delle sue prose liricamente tramate… Ma Dina era una vera voce della poesia, meritevole ancor oggi di essere ascoltata, e bene hanno fatto Luigi Oliveto e i bravissimi Antonio Bartoli e Silvia Folchi delle senesi “Videodocumentazioni” a realizzare anni fa, con il contributo della provincia di Siena e dei comuni di Radicondoli e Chiusdino, questo Incompiuto canto che oggi con piacere torniamo ad offrire ai lettori.

Riuscirà un centenario alle porte a rinverdire il ricordo di Dina Ferri e a rendere nuovamente onore alla sua opera? Miglior modo non potrebbe esserci di un’edizione criticamente curata del Quaderno del nulla arrichita da una selezione di testi inediti, scelti fra quelli – numerosi, a quel che sappiamo, in versi e in prosa – gelosamente, amorevolmente conservati nell’archivio di famiglia.

Marco Marchi

Vorrei

Vorrei fuggire nella notte nera,

vorrei fuggire per ignota via,

per ascoltare il vento e la bufera,

per ricantare la canzone mia.

Vorrei mirare nella cupa volta

fise le stelle nella notte scura;

vorrei tremare ancor come una volta,

tremar vorrei, di freddo e di paura.

Vorrei passar l’incognito sentiero,

fuggir per valli, riposarmi a sera,

mentre ritorni, o giovinetto fiero,

chiamando i greggi, e piange la bufera.

Mai più!

Chiesi un giorno alle nubi lontane

quando l’ombra finisce quaggiù;

mi rispose vicino una voce,

una voce che disse: – Mai più!

A le stelle del cielo turchino,

a la notte vestita di nero,

io richiedo con timida voce,

come allora, lo stesso mistero.

Io richiedo ne l’ombra la via

e risogno la luce che fu.

Ma risento la solita voce;

quella voce che dice: – Mai più!

Siena, 2 marzo 1929

C’era tanta luce e tanto sole nel cielo, e davanti a me l’orizzonte si apriva sempre più vasto. Camminavo, camminavo fin dal mattino. La via era sassosa, erta, tortuosa. Si scendeva traverso i boschi nei torrenti disseccati, si risaliva lentamente tra le siepi. Si udiva il volo di qualche uccello spaventato che fuggiva. Talvolta un trillo feriva l’aria, poi taceva quasi sùbito.

Era bello quel giorno, e nella serenità dell’aria fredda di marzo, camminavo con un desiderio nuovo. Forse ero stanca, ma non lo sentivo. E l’orizzonte ingrandiva sempre, e lontano si vedevano grandi monti azzurrognoli. Si udiva il campano di un gregge, un belato, un richiamo, poi silenzio. Incontro un viandante, si scambiava un saluto, guardavo un istante senza voglia di camminare. Dall’alto di un colle si scorgevano in un campo, dietro un torrente pieno di ciottoli, due buoi aggiogati all’aratro, un bifolco, una striscia scura di terra. Poi di nuovo la solitudine e il silenzio.

I miei compagni di viaggio tacevano. Pareva che ognuno avesse un pensiero, un ricordo. Forse io sola non pensavo a ciò che restava dietro di me. Guardavo gli orizzonti, i monti, il cielo. Mi piaceva camminare così. Vedevo cose nuove, ma non chiedevo nulla. Mi bastava vedere. Sentivo, sommesso, un coro immenso di voci cantare al cielo e al sole, e volevo rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.

Il giorno passò; il sole si spense nei vapori del tramonto. Allora si vide, ancora lontano, un rustico villaggio dimenticato su una via bianca, lunga, polverosa. Guardai lontano e lo sguardo si perdè nella via; ma io non ebbi più voglia di proseguire; mi volsi indietro e piansi. Fu così che in un tramonto di marzo, traverso vie mai percorse, vidi profilarsi Ciciano in un lontano incendio. Era un piccolo villaggio di cui il viandante non serba forse che un vago ricordo, che si cancella prima ch’egli torni nella patria abbandonata; ma nella mia mente di bimba ha lasciato una di quelle impressioni che il tempo non riesce a cancellare. Le sue case erano rustiche, piccole, modeste, coi muri di pietra rossa, coi tetti rossi, battuti dalle piogge, e nel villaggio c’era una piccola piazza traversata dalla strada bianca. Le altre vie erano strette, deserte, chiuse tra le case grigie, addossate le une alle altre. Ogni sera fumavano i comignoli scuri, come un invito di ritorno e una promessa di riposo. Ogni sera belavano le capre nelle strette viuzze ricondotte dai fanciulli e tornavano dai campi gli abitanti con fasci d’erba sulle spalle, o con canestri di giunco colmi di frutta, infilati al braccio. Al di sopra dei comignoli, tra le modeste abitazioni, si eleva un campanile. Là c’era una chiesa piccola, bianca, come ogni chiesa di campagna. Le sue campane suonavano al mattino, suonavano la sera. Talvolta, quando udivo quel canto, come nella sera lontana dell’arrivo, ripensavo alla casa abbandonata e mi commovevo. Ma Ciciano mi piaceva. Mi piacevano le case rustiche, le viuzze. La piazza, la strada grande non dicevano nulla per me.

Giravo come una piccola vagabonda tra i vicoli stretti e deserti senza nulla chiedere ai ragazzi sporchi che giocavano su le pietre. Per molto tempo andai così, con indifferenza, da un vicolo all’altro. Nulla chiedevo agli abitanti, nulla chiedevano a me. Solo, qualche volta, i ragazzi alzavano il capo per guardarmi e mi guardavano le madri lavorando su le porte spalancate.

Un giorno capitai in un vicolo remoto, più stretto degli altri, sormontato da un arco.

Presso l’arco c’era una piccola loggia e nella loggia piena di sole si apriva la porta di una singolare dimora, tanto piccola, tanto povera, tanto deserta d’intorno, che si sarebbe creduta abbandonata, se la porta non fosse ogni giorno rimasta aperta.

Dinanzi alla porta filava una vecchina. Era piccola, curva, con le mani scarne, il volto pallido, gli occhi sereni, stranamente sereni, i capelli bianchi. Vestiva un abito nero, logoro, antico; sempre lo stesso. C’era tanto sole nella piccola loggia davanti alla casa della vecchina, ma i ragazzi non vi giocavano mai, ed essa rimaneva sola, sempre sola. Non pareva dolersi della sua solitudine; pareva non avvedersene, e filava sempre. Presso la filatrice, sul davanzale di una finestra piccola e bassa, in un vecchio vaso, c’era una pianta verde di geranio, che non fioriva mai. La vecchia amava quella pianta: la innaffiava puntualmente, senza dimenticarsene, la sera e la mattina, e le strappava le foglie secche, come il tempo strappava a lei gli anni, così che non si ricordava più quante volte le rondini avevano fabbricato il nido sotto la gronda, da che essa viveva nella casina. Mi piaceva la strana vecchietta, e passavo e ripassavo per quella via. E la vecchina filava sempre, la mattina, la sera, senza annoiarsi, senza stancarsi mai. Poi mi avvicinai un giorno e mi affezionai alla povera filatrice. Allora tutti i miei giri di piccola vagabonda ebbero una mèta: la loggia della vecchina.

E lassù, nella viuzza deserta, essa mi narrava le cose e i fatti dei suoi tempi; le novelle meravigliose e le leggende del paese. Ma un giorno mi dissero che la vecchina era morta. Pensai che la sua dimora era vuota, che la loggia era deserta: non ricordai che il geranio aveva sete e impallidiva, e non vi tornai più.

Da allora Ciciano mi rimase per lungo indifferente e non mi accorsi che le sue case aumentavano, che le sue vie ingrandivano, e che perdeva quell’aspetto di rustico villaggio. È stato oggi, che ritornando dopo lunga assenza, me ne sono accorta. Io non riconosco più le sue case, come non riconosco più i suoi abitanti. I ragazzi hanno dimenticato le capre alla pastura. Questo non è più Ciciano come lo vidi e come l’amo io, rustico e semplice. Sono andata cercando qualche cosa che mi parlasse del tempo trascorso e sono ripassata dinanzi alla casa della vecchina. La casa è ingrandita e su la porta era una donna che non conobbi. Essa mi guardò, ma non sorrise come la vecchina. Solo una cosa Ciciano conserva d’immutato: il pianto delle sue campane.

Ospedale di Siena, 10 giugno 1930

Muore l’Estate come un gran giorno pieno di sole. Ingialliscono le foglie del granturco e il sole non arde più. Ritorna l’Autunno; si sente nell’aria l’alito del suo respiro. Viene l’Autunno e verrà il giorno della vendemmia. Usciranno lungo i filari le donne e i fanciulli, i vecchi e gli uomini forti. Le giovinette si cingeranno di tralci e il vino stillerà dal frutto maturo e verseranno le coppe ricolme e ovunque sarà festa.

Intanto, nell’attesa, si preparano i tini che spumeranno del dolce liquore.

Ma io amo gli ardori della canicola che imbianca le stoppie e ho paura dell’Autunno, perché dietro di esso c’è l’asprezza del rovaio. No, io non desidero l’Autunno, perché non so cantare lungo i filari, e non voglio udire il canto della vendemmia, perché la malinconia di quel canto assopirà le campagne. E poi io non potrò raccogliere, come il forte agricoltore, il frutto del dolce liquore, poiché nulla avrò seminato o saranno morte le tenere viti. E l’Autunno sarà triste per me.

Ma io non vedrò ingiallire le foglie della vite come quelle del granturco. Quando l’ultimo raggio della canicola sarà impallidito, io dormirò sul ciglio del fossato.

C’è un segreto giù nei campi e me lo disse una mattina una fanciulla che incontrai.

Esiste un fiore strano che ha nel calice un nèttare divino. Non so per quale ninfa fu creato questo fiore, ma l’uomo che una volta si disseta con quel nèttare, s’addormenta e non sa più. Anch’io accosterò le labbra al calice del fiore strano, gusterò del nèttare divino, e m’addormenterò sul fossato. E sopra di me passerà l’Autunno e piangerà la bufera. Ma io non udrò, e sognerò la canicola che imbianca le stoppie.

Dina Ferri 

(da Quaderno del nulla)

I VOSTRI COMMENTI

Tirreno

Un lavoro irrinunciabile ed uno strumento prezioso per la conoscenza di questa “poetessa del nulla” che con la sua candida, lacerante, semplicità assurge a vette altissime, Dina Ferri.

tristan51

Un “caso” senz’altro da riaprire. E che bella la prosa della vecchina di Ciciano!

Marco Capecchi

Dina Ferri: quando l’innocenza del cuore si approssima alla poesia.

Antonella Bottari

Dina Ferri, con passi lievi lascia un patrimonio di “perle d’anima” che sembrano provenire da un mondo non suo. L’umile fanciulla tesse la tela della sua piccola vita su una trama delicatissima il cui nome è Poesia. Leggiamo commossi da tanta bellezza e semplicità che ci tocca nel profondo. Grazie al professor Marchi per averci regalato momenti di arte pura.

Antonietta Puri

Dalle due liriche di Dina Ferri stillano, fin dal titolo, uno struggente rimpianto e una profonda vena malinconica: il primo nasce dalla riflessione su quella che avrebbe potuta essere la vita della poetessa, un’esistenza toltale troppo presto dalla sorte, quella vita che Dina amava appassionatamente, sia negli aspetti più umili e ordinari, sia nei lati più arcani e oscuri che avrebbe tanto continuato a indagare , con l’anima percorsa da un brivido che, come sempre, si sarebbe sciolto in canto… L’intima sfumatura di tristezza invece scaturisce dalla consapevolezza di Dina che la luce che, in un tempo non lontano, ne illuminò il percorso e ne rivelò il genio non tornerà mai più, ormai sopraffatta dal velo d’ombra steso dalla morte che le è accanto. Una giovane donna, un’ ispirata poetessa scomparsa troppo presto per riuscire a dischiudere il boccio già turgido e pronto a disvelare il fiore misterioso e dolente che ne sarebbe uscito, maturato dal connubio di un grande amore per la natura alla quale Dina affidava le sue domande esistenziali, ben percependone le risposte e la sofferenza portata a compimento durante il periodo della malattia, da cui non uscì viva, denso di profonde, dolorose meditazioni.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

In Pascoli e nei suoi versi colmi di una malinconia tormentata, legata ai traumi di un’infanzia precocemente e tragicamente privata del nido familiare, Dina Ferri ritrovò la stessa struggente malinconia che tormentava la sua giovane anima. Un’anima nata per la poesia e alla poesia, poesia essa stessa, che nei modi ‘pascoliani’, espresse quindi il suo delicato sentire. Purtroppo la sua vita spezzata nel fiore degli anni – nella sua malinconia vi era forse struggente presentimento di un futuro di morte imminente? – non ci permette di assaporare il frutto poetico maturo che certo avrebbe saputo ridimensionare la forte presenza del modello, facendo così risaltare maggiormente quei non pochi segni di originalità che già illuminano la sua giovane poesia. Eppure già così versi lasciano in noi una traccia. A proposito del documentario: questo “Incompiuto canto” è di una bellezza struggente. Con le sue immagini, i suoi colori (i vividi colori dell’estate nella campagna senese!) che si alternano al nero seppiato delle vecchie foto ci propone un ritratto indimenticabile della poetessa pastorella.

Giulia Bagnoli

Un’altra giovane donna che meriterebbe di essere studiata, per sottrarla a quel tragico destino del “Mai piu” che sembra avvolgere ogni cosa. Che la dimenticanza e una seconda morte. E la piu terrificante. Una poesia semplice, quasi la voce silenziosa di un bambino che si affaccia alla vita e non la capisce, eppure con la complessita di quegli eterni interrogativi. Ci troviamo di fronte al mistero della vita – e della morte – col tempo che passa inesorabilmente, dove il “mai piu” e anche “il non essere mai”.

framo

Disporsi a non udire, a dormire senza più sapere, sognando “la canicola che imbianca le stoppie”. Addormentarsi “sul ciglio del fossato”: porsi sulla soglia, al confine fra luce e tenebre, lungo il limite che squaderna l’abisso oscuro, in cui – “invito di ritorno e promessa di riposo” – vivere e morire si intersecano e il noto retrocede cedendo il passo all’ardore per il “non sapere più”. Poesia vibrante: mistica, viscerale e dolente, come l’amore che ci scopriamo a provare per la “capanna dimenticata”, non temendo l’asprezza dei rovai.

Isola Difederigo

Strana creatura Dina, così obbediente al festoso richiamo della natura, e così docile al fascino segreto della scrittura fin quando questa diventa per lei, per i suoi vent’anni irreparabilmente segnati dall’immagine della fine, un allarme e un rimorso. Oltre le circostanze di un “caso” umano e letterario, Dina continua a parlarci oggi, dalla sua solitudine piena di silenzi e di tante voci, con la forza e l’evidenza lirica di una vera scrittrice; una di quelle, come avrebbe detto Luigi Baldacci, che non lasciano le cose come stanno.

Ferruccio Palmucci

Un grande talento poetico stroncato in giovanissima età, ma non abbastanza da non lasciarci perle di lirica bellezza e un sentimento mistico della natura. Cuore della poesia di Dina Ferri è infatti il sentimento della natura vissuto come inquieto piacere ed estatico abbandono; una simbiosi perfetta con l’ “Anima Mundi” di cui tutti gli esseri sono parte inconsapevole, ma alla cui dimensione inaudita i poeti, in virtù di un “miracolo”, accedono con parole ed immagini che nessuna parola o immagine conosciuta saprebbe ridire. Lo stupore della Ferri dinanzi alla natura è la felicità di chi sente “sommesso, un coro di voci cantare al cielo e al sole” e vuole “rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.” Ma è anche lo stupore per il mistero che altre voci evocano in lei quando “fugge nella notte nera/ …per ascoltare il vento e la bufera”; quando ammira “le stelle nella notte scura” e “trema di freddo e di paura”; quando vorrebbe passare per “l’incognito sentiero …fuggir per valli” e attendere a sera il ritorno delle greggi mentre “piange la bufera.” Immagini che rimandano al cuore dell’arcano universo che batte all’unisono col cuore degli uomini e che comunica il brivido di trepidanti emozioni. La poetessa pastorella, voce di quell’ “Anima mundi” che così bene ha trovato in lei l’espressione del proprio infinito, chiederà, forse presagendo la fine, “a le stelle del cielo turchino,/ a la notte vestita di nero” l’ignota ragione del proprio destino, “il ritorno alla luce che fu.” Ma la risposta sarà: “Mai più!” Un destino crudele reciderà questo fiore sublime all’età di 22 anni con un’insensatezza che non troverà mai una spiegazione plausibile. Gli uomini sono destini, tutti diseguali nel dolore e nella gioia, nella vita e nella morte, tutti assurdi. Degli uomini restano le opere, alcune immortali, come la poesia, voce dell’infinito che è in noi, che proviene dal mondo dell’indicibile al quale forse, come fu detto per la dimensione divina, nessuno può accedere e rimaner vivo.

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