Leopardi, il pastore e la luna

VEDI IL VIDEO “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” letto da Arnoldo Foà , “La sera del dì di festa”…  , … e “A Silvia” lette da Arnoldo Foà , “A Giacomo Leopardi” di Pietro Mascagni (1898) Firenze, 28 giugno 2017 – Ricordando che domani ricorrerà l’anniversario della nascita di Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798). Canto notturno […]

VEDI IL VIDEO “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” letto da Arnoldo Foà , “La sera del dì di festa”…  , … e “A Silvia” lette da Arnoldo Foà , “A Giacomo Leopardi” di Pietro Mascagni (1898)

Firenze, 28 giugno 2017 – Ricordando che domani ricorrerà l’anniversario della nascita di Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798).

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

la vita del pastore.

Sorge in sul primo albore

move la greggia oltre pel campo, e vede

greggi, fontane ed erbe;

poi stanco si riposa in su la sera:

altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende



questo vagar mio breve,


il tuo corso immortale?


Vecchierel bianco, infermo,


mezzo vestito e scalzo,


con gravissimo fascio in su le spalle,


per montagna e per valle,


per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,


al vento, alla tempesta, e quando avvampa


l’ora, e quando poi gela,


corre via, corre, anela,


varca torrenti e stagni,


cade, risorge, e piú e piú s’affretta,


senza posa o ristoro,


lacero, sanguinoso; infin ch’arriva


colà dove la via


e dove il tanto affaticar fu vòlto:


abisso orrido, immenso,


ov’ei precipitando, il tutto obblia.


Vergine luna, tale


è la vita mortale.


Nasce l’uomo a fatica,


ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento


per prima cosa; e in sul principio stesso


la madre e il genitore


il prende a consolar dell’esser nato.


Poi che crescendo viene,

l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre


con atti e con parole


studiasi fargli core,


e consolarlo dell’umano stato:


altro ufficio piú grato


non si fa da parenti alla lor prole.


Ma perché dare al sole,


perché reggere in vita


chi poi di quella consolar convenga?


Se la vita è sventura,


perché da noi si dura?


Intatta luna, tale
è lo stato mortale.


Ma tu mortal non sei,


e forse del mio dir poco ti cale.


Pur tu, solinga, eterna peregrina,


che sí pensosa sei, tu forse intendi,


questo viver terreno,


il patir nostro, il sospirar,

che sia;
che sia questo morir, questo supremo


scolorar del sembiante,


e perir dalla terra, e venir meno


ad ogni usata, amante compagnia.


E tu certo comprendi


il perché delle cose, e vedi il frutto


del mattin, della sera,


del tacito, infinito andar del tempo.


Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore


rida la primavera,


a chi giovi l’ardore, e che procacci


il verno co’ suoi ghiacci.


Mille cose sai tu, mille discopri,


che son celate al semplice pastore.


Spesso quand’io ti miro
star

cosí muta in sul deserto piano,


che, in suo giro lontano, al ciel confina;


ovver con la mia greggia


seguirmi viaggiando a mano a mano;


e quando miro in cielo arder le stelle;


dico fra me pensando:


a che tante facelle?


che fa l’aria infinita, e quel profondo


infinito seren? che vuol dir questa


solitudine immensa? ed io che sono?


Cosí meco ragiono: e della stanza


smisurata e superba,


e dell’innumerabile famiglia;


poi di tanto adoprar, di tanti moti


d’ogni celeste, ogni terrena cosa,


girando senza posa,


per tornar sempre là donde son mosse;


uso alcuno, alcun frutto


indovinar non so. Ma tu per certo,


giovinetta immortal, conosci il tutto.


Questo io conosco e sento,


che degli eterni giri,


che dell’esser mio frale,


qualche bene o contento


avrà fors’altri; a me la vita è male.


O greggia mia che posi, oh te beata,


che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!


Non sol perché d’affanno


quasi libera vai;


ch’ogni stento, ogni danno,


ogni estremo timor subito scordi;


ma piú perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,


tu se’ queta e contenta;


e gran parte dell’anno


senza noia consumi in quello stato.


Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,


e un fastidio m’ingombra


la mente, ed uno spron quasi mi punge


sí che, sedendo, piú che mai son lunge


da trovar pace o loco.


E pur nulla non bramo,


e non ho fino a qui cagion di pianto.


Quel che tu goda o quanto,


non so già dir; ma fortunata sei.


Ed io godo ancor poco,


o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.


Se tu parlar sapessi, io chiederei:


– Dimmi: perché giacendo


a bell’agio, ozioso,


s’appaga ogni animale;


me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? -


Forse s’avess’io l’ale


da volar su le nubi,


e noverar le stelle ad una ad una,


o come il tuono errar di giogo in giogo,


piú felice sarei, dolce mia greggia,


piú felice sarei, candida luna.


O forse erra dal vero,

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:


forse in qual forma, in quale


stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dí natale.



Giacomo Leopardi

(da Canti)

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