La ginestra di Leopardi

VEDI I VIDEO “La ginestra” letta da Carmelo Bene ,  “Giacomo Leopardi”,  documentario di Aldo Nascimben (1954) , “A Giacomo Leopardi”, poema musicale per orchestra e voce di soprano di Pietro Mascagni (1898) , “Amore e morte” letta da Carmelo Bene Firenze, 22 luglio 2016 La ginestra o il fiore del deserto Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ […]

VEDI I VIDEO “La ginestra” letta da Carmelo Bene ,  “Giacomo Leopardi”,  documentario di Aldo Nascimben (1954) , “A Giacomo Leopardi”, poema musicale per orchestra e voce di soprano di Pietro Mascagni (1898) , “Amore e morte” letta da Carmelo Bene

Firenze, 22 luglio 2016

La ginestra

o il fiore del deserto

Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

Giovanni, III, 19.

Qui su l’arida schiena

del formidabil monte

sterminator Vesevo,

la qual null’altro allegra arbor né fiore,

tuoi cespi solitari intorno spargi,

odorata ginestra,

contenta dei deserti. Anco ti vidi

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

che cingon la cittade

la qual fu donna de’ mortali un tempo,

e del perduto impero

par che col grave e taciturno aspetto

faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

lochi e dal mondo abbandonati amante

e d’afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

di ceneri infeconde, e ricoperti

dell’impietrata lava,

che sotto i passi al peregrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio;

fûr liete ville e cólti,

e biondeggiâr di spiche, e risonâro

di muggito d’armenti;

fûr giardini e palagi,

agli ozi de’ potenti

gradito ospizio; e fûr cittá famose,

che coi torrenti suoi l’altèro monte

dall’ignea bocca fulminando oppresse

con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

una ruina involve,

ove tu siedi, o fior gentile, e quasi

i danni altrui commiserando, al cielo

di dolcissimo odor mandi un profumo,

che il deserto consola. A queste piagge

venga colui che d’esaltar con lode

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

è il gener nostro in cura

all’amante natura. E la possanza

qui con giusta misura

anco estimar potrá dell’uman seme,

cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

son dell’umana gente

«Le magnifiche sorti e progressive».

Qui mira e qui ti specchia,

secol superbo e sciocco,

che il calle insino allora

dal risorto pensier segnato innanti

abbandonasti, e vòlti addietro i passi,

del ritornar ti vanti,

e procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,

di cui lor sorte rea padre ti fece,

vanno adulando, ancora

ch’a ludibrio talora

t’abbian fra sé. Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto;

bench’io sappia che obblio

preme chi troppo all’etá propria increbbe.

Di questo mal, che teco

mi fia comune, assai finor mi rido.

Libertá vai sognando, e servo a un tempo

vuoi di novo il pensiero,

sol per cui risorgemmo

della barbarie in parte, e per cui solo

si cresce in civiltá, che sola in meglio

guida i pubblici fati.

Cosí ti spiacque il vero

dell’aspra sorte e del depresso loco

che natura ci die’. Per queste il tergo

vigliaccamente rivolgesti al lume

che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli

vil chi lui segue, e solo

magnanimo colui

che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme

che sia dell’alma generoso ed alto,

non chiama sé né stima

ricco d’òr né gagliardo,

e di splendida vita o di valente

persona infra la gente

non fa risibil mostra;

ma sé di forza e di tesor mendíco

lascia parer senza vergogna, e noma

parlando, apertamente, e di sue cose

fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

non credo io giá, ma stolto,

quel che nato a perir, nutrito in pene,

dice: — A goder son fatto, —

e di fetido orgoglio

empie le carte, eccelsi fati e nòve

felicitá, quali il ciel tutto ignora,

non pur quest’orbe, promettendo in terra

a popoli che un’onda

di mar commosso, un fiato

d’aura maligna, un sotterraneo crollo

distrugge sí, ch’avanza

a gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella

ch’a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dá la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccom’è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra sé confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune. Ed alle offese

dell’uomo armar la destra, e laccio porre

al vicino ed inciampo,

stolto crede cosí, qual fôra in campo

cinto d’oste contraria, in sul piú vivo

incalzar degli assalti,

gl’inimici obbliando, acerbe gare

imprender con gli amici,

e sparger fuga e fulminar col brando

infra i propri guerrieri.

Cosí fatti pensieri

quando fien, come fûr, palesi al volgo;

e quell’orror che primo

contra l’empia natura

strinse i mortali in social catena,

fia ricondotto in parte

da verace saper; l’onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade altra radice

avranno allor che non superbe fole,

ove fondata probitá del volgo

cosí star suole in piede

quale star può quel c’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa,

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo, ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor piú senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o cosí paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell’uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiú, di cui fa segno

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto; e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente etá, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietá prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

cui lá nel tardo autunno

maturitá senz’altra forza atterra,

d’un popol di formiche i dolci alberghi

cavati in molle gleba

con gran lavoro, e l’opre,

e le ricchezze ch’adunate a prova

con lungo affaticar l’assidua gente

avea provvidamente al tempo estivo,

schiaccia, diserta e copre

in un punto; cosí d’alto piombando,

dall’utero tonante

scagliata al ciel profondo,

di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli,

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar lá su l’estremo

lido aspergea, confuse

e infranse e ricoperse

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

la capra, e cittá nove

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

son le sepolte, e le prostrate mura

l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

dell’uom piú stima o cura

ch’alla formica: e se piú rara in quello

che nell’altra è la strage,

non avvien ciò d’altronde

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento

anni varcâr poi che sparîro, oppressi

dall’ignea forza, i popolati seggi,

e il villanello intento

ai vigneti, che a stento in questi campi

nutre la morta zolla e incenerita,

ancor leva lo sguardo

sospettoso alla vetta

fatal, che nulla mai fatta piú mite

ancor siede tremenda, ancor minaccia

a lui strage ed ai figli ed agli averi

lor poverelli. E spesso

il meschino in sul tetto

dell’ostel villereccio, alla vagante

aura giacendo tutta notte insonne,

e balzando piú volte, esplora il corso

del temuto bollor, che si riversa

dall’inesausto grembo

sull’arenoso dorso, a cui riluce

di Capri la marina

e di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo

del domestico pozzo ode mai l’acqua

fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

desta la moglie in fretta, e via, con quanto

di lor cose rapir posson, fuggendo,

vede lontan l’usato

suo nido, e il picciol campo,

che gli fu dalla fame unico schermo,

preda al flutto rovente,

che crepitando giunge, e inesorato

durabilmente sovra quei si spiega.

Torna al celeste raggio

dopo l’antica obblivion, l’estinta

Pompei, come sepolto

scheletro, cui di terra

avarizia o pietá rende all’aperto;

e dal deserto fòro

diritto infra le file

de’ mozzi colonnati il peregrino

lunge contempla il bipartito giogo

e la cresta fumante,

ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell’orror della secreta notte

per li vacui teatri,

per li templi deformi e per le rotte

case, ove i parti il pipistrello asconde,

come sinistra face

che per vòti palagi atra s’aggiri,

corre il baglior della funerea lava,

che di lontan per l’ombre

rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi

ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno

dopo gli avi i nepoti,

sta natura ognor verde, anzi procede

per sí lungo cammino

che sembra star. Caggiono i regni intanto,

passan genti e linguaggi: ella nol vede:

e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,

che di selve odorate

queste campagne dispogliate adorni,

anche tu presto alla crudel possanza

soccomberai del sotterraneo foco,

che ritornando al loco

giá noto, stenderá l’avaro lembo

su tue molli foreste. E piegherai

sotto il fascio mortal non renitente

il tuo capo innocente:

ma non piegato insino allora indarno

codardamente supplicando innanzi

al futuro oppressor; ma non eretto

con forsennato orgoglio inver’ le stelle,

né sul deserto, dove

e la sede e i natali

non per voler ma per fortuna avesti;

ma piú saggia, ma tanto

meno inferma dell’uom, quanto le frali

tue stirpi non credesti

o dal fato o da te fatte immortali.

Giacomo Leopardi 

(da Canti)

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