‘Notizie di poesia’. Ottobre, il post del mese (con i vostri commenti)

Firenze, 31 ottobre 2019 – Evviva! Vince Giacomo Trinci con il post anniversario intitolato Auguri a Giacomo Trinci che qui si ripubblica. Bravissimo Giacomo, autore di un testo molto suggestivo tratto da un canzoniere per la madre tra i più alti della nostra poesia novecentesca, Senza altro pensiero: un testo degno di stare al fianco dei […]

Firenze, 31 ottobre 2019 – Evviva! Vince Giacomo Trinci con il post anniversario intitolato Auguri a Giacomo Trinci che qui si ripubblica. Bravissimo Giacomo, autore di un testo molto suggestivo tratto da un canzoniere per la madre tra i più alti della nostra poesia novecentesca, Senza altro pensiero: un testo degno di stare al fianco dei versi ispiratissimi di Caproni e Pasolini!

Assieme alle congratulazioni rinnoviamo al poeta pistoiese l’invito (caldo, pressante invito) a dare alle stampe una sua nuova raccolta, dato che il suo ultimo libro, Inter nos, risale a vari anni or sono e per esserci come poeti ai giorni nostri vuol dire ancora, social a parte, avere un proprio titolo in libreria. E in libreria, aggiungiamo, dovrebbe esserci a ragione anche la straordinaria raccolta d’esordio di Trinci, Cella, meritoriamente pubblicata nel lontano 1994 dalle edizioni di una famosa galleria d’arte fiorentina, Pananti, ristampata poco dopo dallo stesso editore, ma poi rimasta sostanzialmente sconosciuta ai più, alla maggior parte cioè di critici e lettori che hanno accordato il loro consenso a Trinci (un’adesione spesso entusiastica) sulla base di altri documenti, ma non su quella prova fondante ed eccezionalmente riuscita. Cella, ne sono convinto, resta uno dei libri più belli del nostro poeta!

Il secondo posto spetta questo mese (a Giacomo Trinci tremeranno di sicuro le vene e i polsi) a Marina Cvetaeva e al grande padre Omero, quest’ultimo impostosi attraverso la mediazione traduttoria veramente pregevole di Giovanna Bemporad. Al terzo posto si registra un altro ex aequo: un ex aequo che vede allineati poeti insigni (a Giacomo Trinci tremeranno ancora le vene e i polsi) che rispondono ai nomi di Mario Luzi e Rainer Maria Rilke.

Tra i vostri commenti ottobrini dedicati alla bellissima poesia di Trinci segnaliamo quelli di Matteo Mazzone, Isola Difederigo ed Elisabetta Biondi della Sdriscia. Nell’ordine: “Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!”; “Il fatto è che Trinci non può che riconoscersi poeta nella condizione di figlio. Il figlio che in ‘Cella’ partecipa al duello amoroso della sua ante-vita, che in ‘Resto di me’ scrive con e per il padre, il figlio che in ‘Senza altro pensiero’ torna a visitare quella camera dove vita e morte, morte e vita si sono fin dal principio inseparabilmente conosciute, lì dove pulsa il battito della poesia. La culla-sepolcro che lo ha battezzato poeta si ripresenta a Trinci con la gravità concettuale di una poesia senza trascendenza – ‘il sunto di un racconto della carne’ – e la levità cantabile di un andante mozartiano. Di questo poeta sempre in cerca di origini ci pare specialmente ammirevole l’asciutta castità della sua pronuncia poetica, per un deposito d’antica pietà che avvicina questo figlio del Novecento ai nostri trecentisti. Sarà per questo, sarà per il calore della tua personalità umana che alla toscana si direbbe ‘tra il lusco e il brusco’, che anch’io, Giacomo, ti voglio bene”; “Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (‘ogni giorno è da qui vive con me’) e riverberando sul passato il dolore (‘Si sentiva più stanca’; ‘era stanca, diceva sempre più). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel ‘morso asciutto’ del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale” .

Ancora auguri a Giacomo, e a domani, con un nuovo mese, nuovi poeti e nuove poesie!

Marco Marchi

Auguri a Giacomo Trinci

Firenze, 13 ottobre 2019 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Giacomo Trinci (Pistoia, 12 ottobre 1960).

Caro Giacomo, tutti attendiamo, dopo Inter nos uscito nel 2013, un tuo nuovo libro. Ma mi è capitato in questi giorni di rileggere la tua raccolta del 2006, Senza altro pensiero, e torno a dirti con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, “altrove” e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia.

Un canzoniere per la madre, Senza altro pensiero, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze della tua opera d’esordio: quell’indimenticabile Cella da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconosce oggi Paolo Maccari nella sua pregevole, centratissima postfazione ad Inter nos).

Quel che è venuto dopo – da Voci dal sottosuolo al tuo Pinocchio in versi, a Inter nos – è disceso da lì. Ma è con Resto di me e con Senza altro pensiero, prima del libro ultimo che potremmo definire libro di consuntivo e di crescita, che i vincoli con le origini sono tornai a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto Cella magnificamente registrava e quanto in Inter nos culmina.

L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in Cella all’”ante-vita” e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini dell’Usignolo già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.

Dominava in Cella una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.

Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.

In Senza altro pensiero la «cella» testualmente ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone, ma i pezzi bellissimi non si contano), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.

Bianca Garavelli ha scritto per te pagine ammirate e ricche di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in Senza altro pensiero di modelli novecenteschi di “canzoniere alla madre”. Ma mancano i due riferimenti più utili per capire: la “mari fruta” di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei Versi livornesi di Giorgio Caproni.

“Vergine madre, figlia del tuo figlio”, diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, la tua «canzone» da nido pascoliano può dire alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: “suo figlio, il suo fidanzato”.

Marco Marchi 

quella era la sua camera – vedete –

quella era la sua camera – vedete 

ogni giorno è da qui vive con me


da quando poi salendo queste scale

si sentiva più stanca fino ad ora

è qui il mio luogo che sorveglio fisso 

è in un secondo piano ed una porta


a vetri s’apre verso i campi ed oltre.

era stanca, diceva sempre più 

io sorvegliavo da lontano il cuore


io veglio ancora quello che non muore.

ora è ridotto all’osso è solo cella

astratto punto d’un astratto vero

tutto quello che è stato è un morso asciutto

è il sunto di un racconto della carne.

Giacomo Trinci

(da Senza altro pensiero, Aragno 2006)

I VOSTRI COMMENTI

Paolo Parrini

Ci sono Poesie che cambiano la vita di chi ha la fortuna di incontrarle, di leggerle, di amarle. Ci sono Poeti che hanno questo dono, rarissimo e prezioso di combinare una tecnica altissima con un’anima fremente, viva e predisposta a regalarsi. Giacomo Trinci nella mia piccola storia personale, rappresenta questo. Il senso di un bene fatto di dolore, di mancanza, di struggimento, unito alla capacità mirabile di versificare splendidamente. Non esiste una Poesia che per me abbia significato più di questa, la incontrai pochi anni fa, su questa pagina, e fui grato. L’ho fatta leggere a tante persone, a lettori smaliziati e a semplici fruitori della parola poetica. La cosa bellissima e sorprendente è stata l’univocità dei commenti… perché questa Poesia arriva al cuore, penetra in profondità, riempie di dolore , ma lascia incredibilmente un alito di vita tra le dita e sulle labbra. Non so, non mi sento all’altezza di spiegare questo miracolo poetico… ma resta il fatto che una Poesia in morte della Madre diventa un testamento d’Amore universale, e insieme lascia un sapore agrodolce di superamento della morte stessa. La parabola di una vita traslata nell’amore del figlio ,nel ricordo nitido di una fine annunciata. Verrebbe voglia di esserci in quella camera, di piangere insieme al Poeta e di abbracciare insieme a lui , la mamma malata, stringerla e dirle, grazie, grazie di questo testamento d’amore e di Poesia che luccica nel buio delle nostre vite.

Antonella Bottari

Una poesia stringente nel morso dei ricordi, questa di Trinci che scopro pian piano. È un umanissimo struggimento che non cede alla retorica e che sommuove lo spirito di chi leggendo, ne possa sentire le profonde vibrazioni. Una versificazione moderna, non banale, non abusata, che rimanda la mia memoria ad altri notissimi versi: “Forse, infranto il mistero, nel chiarore / del mio ricordo un’ombra apparirai, / un nonnulla vestito di dolore. / Tu, non diversa, tu come non mai…”. Auguri Trinci.

Damiano Malabaila

Giacomo Trinci è davvero uno che ‘sente’ più degli altri: testimone inquieto della vita, cantore della disperazione ma anche auscultatore di ineffabili dolcezze. Poeta complesso ma non intellettualisticamente compiaciuto, riesce a convertire tutta l’intensità della sua rigogliosa invenzione entro l’orizzonte (sconfinato) della parola. E questo, specialmente oggi, mi sembra dote rara.

tristan51

Con tutta probabilità il maggiore poeta italiano di oggi. Ma a quando il suo nuovo libro?

Giulia Bagnoli

Bellissimi versi, delicati e intesi. Mi piace molto il verso “io veglio ancora quello che non muore”, perché una madre non muore mai davvero: vive in noi figli.

Isola Difederigo

Il fatto è che Trinci non può che riconoscersi poeta nella condizione di figlio. Il figlio che in “Cella” partecipa al duello amoroso della sua ante-vita, che in “Resto di me” scrive con e per il padre, il figlio che in “Senza altro pensiero” torna a visitare quella camera dove vita e morte, morte e vita si sono fin dal principio inseparabilmente conosciute, lì dove pulsa il battito della poesia. La culla-sepolcro che lo ha battezzato poeta si ripresenta a Trinci con la gravità concettuale di una poesia senza trascendenza – “il sunto di un racconto della carne” – e la levità cantabile di un andante mozartiano. Di questo poeta sempre in cerca di origini ci pare specialmente ammirevole l’asciutta castità della sua pronuncia poetica, per un deposito d’antica pietà che avvicina questo figlio del Novecento ai nostri trecentisti. Auguri Giacomo!

Duccio Mugnai

E’ vero quanto scrive Marchi, sembra anche a me una struggente levitazione sensitiva, dove il dolore non trova riposo, pur cercando ossessivamente requie nella “cella”. “Il morso” del luogo connesso al ricordo, ci lega ad un rapporto con la madre che, per ciascuno di noi, chi più chi meno, è ,soprattutto e prima di tutto, sangue e carne, molto prima di ogni riduzione o cancellazione intellettiva, ogni esorcismo banalizzante e psichico, che pretenderebbe di negare l’esistere.

Aretusa Obliviosa

Qualcosa di sublime, di delicatissimo caratterizza qui il vincolo, sacro vincolo, che lega il figlio alla madre. Come la vestale di un antico tempio, qui il poeta si fa custode di un sentimento primitivo e inviolabile. Difficile concepire un amore piu grande.

framo

Resta solo uno “spunto” di riflessione, un morso asciutto su ciò che carne ora più non è. Nel profondo saliscendi fuori e dentro a questa stanza ai limiti del vuoto, l’invito iniziale alla visione come “sentita veglia” sul possibile ritorno ad un’intimità “che non muore” cede il passo a un “sorvegliare” fin da subito schermato, da secondo piano, estenuato e amaro; un affaccio da camera “con vista” su residui non ancora estinti e non più pulsanti di una memoria prosciugata … l’abstract di una storia che ha vibrato e vibra di reale umanità. Molto bella.

Sabina Candela

Attendiamo tutti con trepidazione l’uscita di una nuova raccolta. Credo sinceramente che Giacomo Trinci rappresenti una delle più originali e belle voci del nostro attuale panorama.

Matteo Mazzone

Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!

Marco Capecchi

“io veglio ancora quello che non muore”: la poesie va letta . E quando avverti che ogni commento la sciuperebbe è segno che sei di fronte alla grande poesia. Grazie Giacomo Trinci.

Pietro Paolo Tarasco

Anche la poesia, quando è sublime, non “muore” mai. Come una madre. Complimenti e auguri caro Giacomo.

Elisabetta Biondi della Sdriscia

Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (“ogni giorno è da qui vive con me”) e riverberando sul passato il dolore (“Si sentiva più stanca”; “era stanca, diceva sempre più”). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel “morso asciutto” del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale. Vorrei sottolineare, infine, l’originalità dell’incipit: la poesia comincia ex abrupto con un discorso a metà, come il mancato utilizzo della maiuscola sottolinea, quasi facendo ricorso ad una tecnica cinematografica.

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