Fortini, Pasolini e la speranza

VEDI I VIDEO “Al di là della speranza” , “La luce dura”, filmato su Franco Fortini (con versi da “Al di là della speranza”) , “Di Porto Civitanova” , “Quella cosa in Lombardia” di Fortini-Carpi cantata da Enzo Jannacci Firenze, 13 settembre 2017 – Ricordando che domenica scorsa, 10 settembre, ricorreva l’anniversario della nascita di Franco Fortini (Firenze, 10 settembre 1917). […]

VEDI I VIDEO “Al di là della speranza” , “La luce dura”, filmato su Franco Fortini (con versi da “Al di là della speranza”) , “Di Porto Civitanova” , “Quella cosa in Lombardia” di Fortini-Carpi cantata da Enzo Jannacci

Firenze, 13 settembre 2017 – Ricordando che domenica scorsa, 10 settembre, ricorreva l’anniversario della nascita di Franco Fortini (Firenze, 10 settembre 1917).

Caro Pasolini,

ti mando questa improvvisazione, che non vuol esser altro. Non ti conosco abbastanza per sapere quale sorta di passione, o di partecipazione, ti muova o quale indifferenza ti preservi; non so insomma se conoscendoti meglio dovrei considerarti di razza fraterna o nemica. Non ti stupisca questa curiosa dichiarazione: quale dovesse essere il risultato di una indagine ravvicinata (e me la riprometto riprendendo tutto quel che hai scritto finora) non muterebbe certo la mia stima per il tuo lavoro. Lavoro cosi prezioso, che appena letta la “
Polemica in versi” mi son sentito rimescolar dentro il bisogno di dirti che, no, non siamo o non sono quel che tu credi, e nei versi e nella nota; ma di dirtelo, per dir così, “col cuore in mano”. Poi, scrivendo, la polemica ha preso la mano anche a me e cosi vi ho incluso – e sono quelli scritti in rosso, cioè in corsivo, dei versi che avevo iniziati a replica delle “Ceneri di Gramsci”. Nota che probabilmente riscriverò completamente questi versi, certo in una forma tutta diversa. Comunque belli o brutti, seri o ridicoli, son destinati a te e te li mando. L’attenzione che porti a “Ragionamenti” e l’entrare in campo in dispute ideologiche mi siano di giustificazione. Penso che una alleanza, tutto sommato, non sarebbe inutile.  

Al di là della speranza

Nam neque nos agere hoc patria tempore iniquo

possumus aequo animo…

1.

Non la paura di tornare eguali

a noi stessi, cristiane anime in cenere,

né ritegno di errore ci trattiene

fra gli errori. Dai nostri ultimi mali

altro sangue, non gelo, hanno le vene;

non orgoglio, ma irta carità. 

Era dei falsi asceti il falso ardore 

che repugnava: univano l’infame 

disprezzo per i moti chiusi in cuore 

a tutti (la “spontaneità”, la “fame 

di storia”!) con l’elogio dei “semplici”. Onore 

della ragione, il nostro, non virtù 

astratta, non orgoglio. 

Questo, almeno, sperato. E se ora chiedi 

a me il mio cuore antico, se mi chiedi 

chi sono, e quale orgoglio, 

io ti rispondo che il mio pianto, vedi, 

non si vergogna più. 

2. 

E anch’io ho saputo in una torma oscura 

come la tua, ma a Bologna, una festa 

di bandiere rapprese; e poi, fra i resti 

dei cori, i vecchi-infanti nella dura 

ira del neon… Il socialismo tristi 

corpi mi parve, un’altra chiusa età 

come la vecchia inascoltata e nera 

che usciva dalla livida novena 

di incenso e cera e buio, dove la pena 

dell’agonia si culla nella sera 

dei sensi e tutto è vano 

strazio d’infanzia, cieca verità… 

Anch’io so, più dite so, che sia questo 

orrore della povera speranza 

dei poveri, degli ingannati, senza 

possibile riscatto; di chi presto 

sarà vissuto, misera sapienza 

orba di verità. 

Ma tu chi sei che di pietà impietosa 

dài grazia ai versi dove sono ciechi, 

fuor di te, tutti? Nei vicoli biechi 

e teneri ti sciogli, dell’afosa 

notte di Roma, e poi torni e ti rechi 

intatto al verso. Quella libertà 

che ti perdoni, ad altri tu la togli 

e del nulla sei complice e del male 

del tuo popolo. A corte, poi, ti vale 

leggere come l’anima disciogli 

nei tuoi poemi in limpide querele, 

fra chi, come te, sa… 

3. 

Mi provo ad un non mio discorso, vedi, 

credendo che anche a me la rima e il verso 

fingano forza ad essere diverso 

dai miei vizi. Non credo a quel che credi. 

Altre vie dalle tue m’hanno converso 

a questa nostra eguale volontà. 

La nostra storia non è mai finita. 

Quando tu lo chiedevi, io scrissi in odio 

alla pietà che ti vinceva, in odio 

a chi vanta nel verso tuo la Vita 

miele dei morti e del peccato, vischio 

che fa dolce la nausea e la pietà:



Non la speranza ti dico, la cagna

affamata che non si sazia mai

e vagabonda ai confini. Tu sai

quanta con lei si celebra vergogna

quanta con lei viltà.

Una volta, sperare era sperare 

aria d’amore o d’ozio o di campagna 

o d’infanzia risorta o un pianto o un mare 

dove spunti una vela, una montagna 

bruna per la distanza, una città

dove perdersi in pace. Piano, un passo 

dopo l’altro, è mutata, spenti i simboli 

ridicoli, quei miti blandi limbi. 

E la speranza ora è convulso passo 

di bestia, entro di noi, che viene e va.

…………………………………………………

Sogni fra i corpi e credi alloro sangue 

buono a bere, al calore

vile e dolce. Cammini giudicando 

non giudicando, intriso 

d’altri, per umiliarti e, in fondo, vincere. 

Non è la colpa che insapora questo

vagare per le tenebre dolcissime 

di parchi, di balconi, d’archivolti, 

le notti aride; non è più che un ansito 

per ricordare. Sei solo ed e quello 

che vuoi…

Anima bella che si frusta! Il fuoco 

d’essere abbietto e leccare il calcagno, 

lo spasimo in protesi nervi, il roco 

grazie e il devoto alito nel lagno 

ultimo, tu lo sai bene, non è

se non rovescia furia d’infinito

potere che a sé solo in sogno crede,

quando chi dorme in suo ansito stritola

i denti di suo padre sotto il piede

e d’ombre della carne si fa re…

4.

(Veramente si fu servi delle ore,

veramente si fu servi di stolti,

veramente contriti i nostri volti

veri e tradito il nostro vero amore,

e l’ultima parola che ora ascolti

non fu detta, compagno, per viltà,

non l’ho mai detta, perché era più libera

troppo e più grande di questa esistenza

nostra, ed era menzogna dirla senza

dire anche l’altro, dire anche di no…) 

5. 

Ma chi spera di leggere domani 

una consolazione nelle righe 

di piombo dei giornali; e chi le scrive 

nell’afa delle redazioni, con mani 

di assassini devoti; e chi le nemiche 

parole spia per farne scusa a sé, 

sono compagni nostri! Che non credono 

a nulla più se non alle parole 

che hanno insegnato agli operai, parole 

che ritornano a loro come fede 

stravolta o ira o grido di chi vuole 

quel che non ha ma più quel che non sa… 

6. 

Pure, più forti dei loro brusii, più sottili 

dei nostri ragionamenti, più astute 

del dolore, ritessono la muta 

realtà con le tenaci fila 

le forze produttive e si tramutano 

in rapporti di produzione, e sta 

questa, ‘in ultima analisi’, in rapporto 

col ritmo che ti scrivo. Alle officine 

di Varsavia i geli di mattine 

disperate fra binari, abrasivi, acciai, reparti 

di ruggine, odono forse ora la fine 

dei nostri tempi nelle cifre che 

Gozdzik spezza al microfono su folle 

protese e ferme come l’altre, allora, 

sui graniti di Pietrogrado; e chi ora 

va nei parchi di Buda e guarda le zolle 

péste di cingoli e passi, lavora 

in suo cuore, poeta, anche per te. 

7. 

Non ti dico speranza. Ma è speranza. 

Questa parola che ti porgo è niente, 

la sperde il giorno e me con essa. E niente 

ci consola di essere sostanza 

delle cose sperate. In queste lente 

sere di fumo e calce la città 

che mi porta s’intorbida nei viali 

sui battistrada di autotreni, muore 

fra ponti di bitume, fari, scorie… 

Qui sarò stato io vivo; e ai generali 

destini che mi struggono, l’errore 

che fu mio, e il mio vero, resterà.

Franco Fortini

(novembre 1956; da Attraverso Pasolini, 1993)

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