Didone arde d’amore. Virgilio

VEDI I VIDEO Versi dal libro IV dell'”Eneide” letti da Lucia Poli (vv. 8-132) , Didone secondo Henry Purcell , … secondo Giuseppe Ungaretti e Luigi Nono , … secondo Giuseppe Ungaretti e Andrea Chimenti ,  … e secondo Franco Rossi e Giuseppe Tartini Firenze, 23 luglio 2016 Da Eneide, Libro IV Il giorno seguente l’Aurora illuminava la terra […]

VEDI I VIDEO Versi dal libro IV dell'”Eneide” letti da Lucia Poli (vv. 8-132) , Didone secondo Henry Purcell , … secondo Giuseppe Ungaretti e Luigi Nono , … secondo Giuseppe Ungaretti e Andrea Chimenti… e secondo Franco Rossi e Giuseppe Tartini

Firenze, 23 luglio 2016

Da Eneide, Libro IV

Il giorno seguente l’Aurora illuminava la terra

con la luce del sole, e aveva cacciato dal cielo

già tutta l’umida ombra, quando Didone

fuori di sé si rivolge alla fedele sorella:

“Anna, sorella mia, che sogni mi spaventano

e mi tengono in ansia! Non ho mai visto un uomo

come l’ospite nostro! Così nobile d’aspetto,

d’animo valoroso e forte nelle armi!

Credo proprio (ed è vero!) che sia di stirpe divina,

poiché la viltà rivela le anime degeneri.

Ahi, da quale destino è stato travagliato,

come ieri diceva! Che guerre ha sostenuto!

Se non avessi deciso irrevocabilmente

di non voler più sposarmi con nessuno

dopo che il primo amore se l’è preso la morte

e mi ha lasciata così, delusa, piena d’odio

per le faci nuziali ed il talamo, forse

avrei potuto cedere unicamente a lui.

Anna, te lo confesso, dopo la morte del povero

mio marito Sicheo, dopo il delitto fraterno

che ha macchiato di sangue la casa familiare,

questi è il solo che m’abbia colpito i sensi, il solo

che m’abbia folgorato l’anima, così da farla

vacillare: conosco i segni dell’antica fiamma!

Ma la terra profonda s’apra sotto i miei piedi

o il Padre onnipotente mi fulmini nell’ombra,

tra le pallide Ombre dell’Inferno e la notte,

prima che io possa offenderti, sacro Pudore, e violare

le tue leggi. Colui che per primo mi unì

al suo destino d’uomo s’è preso tutto il mio amore,

ora lo tenga per sé, lo serbi nel sepolcro.”

Scoppiò in pianto e le lagrime le corsero giù per il petto.

Anna risponde: “Sorella più cara della luce,

trascorrerai la giovinezza sempre sola e dolente

senza la dolcezza dei figli né le gioie di Venere?

Credi che questo importi alla cenere e all’Ombra

di chi è morto e sepolto? Stammi a sentire. Capisco

che non t’abbia piegato il cuore doloroso

nessun pretendente di Libia e neppure di Tiro;

capisco che tu abbia spregiato Jarba e i re

di questo paese africano ricco di tanti trionfi;

ma perché vuoi respingere anche un amore vero?

Non ti ricordi in che terra ti trovi, in mezzo a che genti?

Di qua ti circondano i popoli di Getulia,

razza imbattibile in guerra, i Numidi senza freno

e l’inospite Sirte; di là una regione deserta,

arsa di sete, e i Barcei che dilagano in furia.

E cosa devo dire delle prossime guerre

con Tiro e delle minacce di nostro fratello?

Credo davvero che le lunghe navi di Troia

siano corse fin qui sotto i soffi del vento

con gli auspici divini e il favor di Giunone.

Che gran città vedrai sorgere, o sorella, che regni,

da un tale matrimonio! Con le armi dei Teucri

a fianco, in quante imprese si leverà la gloria

dei Punici! Tu implora la grazia degli Dei,

questo soltanto, e una volta compiuti i riti abbi cura

dell’ospite, trova pretesti perché si trattenga a lungo,

finché sul mare infuria l’inverno e il piovoso Orione,

finché le navi son guaste e intrattabile il cielo.”

Con queste parole le accese l’anima d’amore bruciante,

diede speranza al cuore dubbioso e vinse il pudore.

Subito vanno ai templi e chiedono la grazia

davanti a tutti gli altari; immolano, come è d’uso,

pecore scelte a Cerere legislatrice, a Febo,

al padre Lieo e soprattutto a Giunone, patrona

dei nodi coniugali. La bella Didone

versa lei stessa la tazza, tenendola con la destra,

tra le corna lunate di una bianca giovenca;

e davanti alle immagini divine a passi solenni

cammina verso gli altari coperti di offerte.

Comincia la sua giornata con sacrifici e preghiere

e, in cerca d’un buon augurio, chinandosi sul fianco squarciato

delle bestie ne consulta le viscere

palpitanti, profetiche. O menti ignare dei vati!

A che servono preci e templi a una donna in delirio?

La fiamma le divora le tenere midolla

e sotto il petto vive una muta ferita.

L’infelice Didone arde ed erra furiosa

per tutta la città, come una cerva incauta

che – dopo averla inseguita con le frecce – un pastore

tra le selve di Creta di lontano ha ferito

con un’acuta saetta, lasciando senza saperlo

confitto nel suo fianco il ferro alato: lei

corre in fuga, affannata, per le foreste e le balze

dittèe, recando inflitta nel fianco la canna mortale.

Ora conduce con sé Enea in mezzo alle mura

facendogli ammirare le ricchezze sidonie

e la città già pronta: ora comincia a parlare

e le manca la voce, si ferma a mezzo il discorso.

Caduto il giorno chiede sempre lo stesso banchetto,

follemente domanda sempre di udire lo stesso

racconto, e pende sempre dalle labbra di lui.

Poi quando si son separati e persino la luna

s’oscura, attenua il suo lume, e le stelle tramontano

ed invitano al sonno, nelle sue vuote stanze

si strugge, sola, e si getta sul giaciglio che Enea

occupava durante la cena e ha lasciato: è lontana

da lui, eppure negli occhi ne ha sempre l’immagine,

la voce di lui lontano ha sempre nelle orecchie.

Ed a volte, incantata dalla sua somiglianza

col padre, tiene in grembo Ascanio e cerca di illudere

l’indicibile amore. Nella città le torri

incominciate rimangono a mezzo, la gioventù

non si esercita più nelle armi, non manda

avanti la costruzione del porto e delle difese

di guerra: ed interrotte rimangono le opere,

gran muri minacciosi, palchi che toccano il cielo.

Quando la vide in preda a una passione tale

che non poteva frenarla nemmeno il timore di scandali,

Giunone Saturnia, cara moglie di Giove, aggredì

Venere in questo modo: “Tu e tuo figlio davvero

avete avuto una bella vittoria e gloriosi trofei!

È proprio un bel vanto per voi che una povera donna

sia vinta dall’inganno di due Numi potenti.

Certo, capisco bene che tu avevi paura

delle mie mura e tenevi in sospetto le case

dell’alta Cartagine. Ma dimmi, quali saranno

i termini ed il fine della nostra contesa?

Concludiamo piuttosto una pace durevole

con un bel matrimonio. Tu hai tutto ciò che hai voluto:

Didone brucia d’amore fino in fondo alle ossa.

Regniamo allora in comune sopra uno stesso popolo;

Didone serva e s’inchini ad un marito frigio

e ti consegni in dote il popolo di Tiro.”

Postera Phoebea lustrabat lampade terras

umentemque Aurora polo dimoverat umbram,

cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:

´Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent.

quis novus hic nostris successit sedibus hospes,

quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis.

credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.

degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille

iactatus fatis. quae bella exhausta canebat.

si mihi non animo fixum immotumque sederet

ne cui me vinclo vellem sociare iugali,

postquam primus amor deceptam morte fefellit;

si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,

huic uni forsan potui succumbere culpae.

Anna fatebor enim miseri post fata Sychaei

coniugis et sparsos fraterna caede penatis

solus hic inflexit sensus animumque labantem

impulit. agnosco veteris vestigia flammae.

sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat

vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,

pallentis umbras Erebo noctemque profundam,

ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.

ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores

abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.´

sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Anna refert: ´O luce magis dilecta sorori,

solane perpetua maerens carpere iuventa

nec dulcis natos Veneris nec praemia noris?

id cinerem aut manis credis curare sepultos?

esto: aegram nulli quondam flexere mariti,

non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas

ductoresque alii, quos Africa terra triumphis

dives alit: placitone etiam pugnabis amori?

nec venit in mentem quorum consederis arvis?

hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello,

et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;

hinc deserta siti regio lateque furentes

Barcaei. Quid bella Tyro surgentia dicam

germanique minas?

dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda

hunc cursum Iliacas vento tenuisse carinas.

quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna

coniugio tali. Teucrum comitantibus armis

Punica se quantis attollet gloria rebus.

tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis

indulge hospitio causasque innecte morandi,

dum pelago desaevit hiems et aquosus Orion,

quassataeque rates, dum non tractabile caelum.´

His dictis impenso animum flammavit amore

spemque dedit dubiae menti solvitque pudorem.

principio delubra adeunt pacemque per aras

exquirunt; mactant lectas de more bidentis

legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,

Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae.

ipsa tenens dextra pateram pulcherrima Dido

candentis vaccae media inter cornua fundit,

aut ante ora deum pinguis spatiatur ad aras,

instauratque diem donis, pecudumque reclusis

pectoribus inhians spirantia consulit exta.

heu, vatum ignarae mentes. quid vota furentem,

quid delubra iuvant? est mollis flamma medullas

interea et tacitum vivit sub pectore uulnus.

uritur infelix Dido totaque vagatur

urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta,

quam procul incautam nemora inter Cresia fixit

pastor agens telis liquitque volatile ferrum

nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat

Dictaeos; haeret lateri letalis harundo.

nunc media Aenean secum per moenia ducit

Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam,

incipit effari mediaque in voce resistit;

nunc eadem labente die convivia quaerit,

Iliacosque iterum demens audire labores

exposcit pendetque iterum narrantis ab ore.

post ubi digressi, lumenque obscura vicissim

luna premit suadentque cadentia sidera somnos,

sola domo maeret vacua stratisque relictis

incubat. illum absens absentem auditque videtque,

aut gremio Ascanium genitoris imagine capta

detinet, infandum si fallere possit amorem.

non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus

exercet portusve aut propugnacula bello

tuta parant: pendent opera interrupta minaeque

murorum ingentes aequataque machina caelo.

Quam simul ac tali persensit peste teneri

cara Iovis coniunx nec famam obstare furori,

talibus adgreditur Venerem Saturnia dictis:

´egregiam vero laudem et spolia ampla refertis

tuque puerque tuus magnum et memorabile numen,

una dolo divum si femina victa duorum est.

nec me adeo fallit veritam te moenia nostra

suspectas habuisse domos Karthaginis altae.

sed quis erit modus, aut quo nunc certamine tanto?

quin potius pacem aeternam pactosque hymenaeos

exercemus? habes tota quod mente petisti:

ardet amans Dido traxitque per ossa furorem.

communem hunc ergo populum paribusque regamus

auspiciis; liceat Phrygio servire marito

dotalisque tuae Tyrios permittere dextrae.´



Publio Virgilio Marone 

(Eneide, Libro IV, vv. 8-132)

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