Auden e lo scudo di Achille

VEDI I VIDEO  “The Shield of Achilles” letta dall’autore , “Lullaby” , “Blues in memoria”, dal film “Quattro matrimoni e un funerale” di Mike Newell (1994) , “La verità, vi prego, sull’amore” Firenze, 28 settembre 2018 – Ricordando che domani ricorrerà l’anniversario della morte del grande poeta inglese Wystan Hugh Auden (Vienna, 29 settembre 1973). Auden è […]

VEDI I VIDEO  “The Shield of Achilles” letta dall’autore , “Lullaby” , “Blues in memoria”, dal film “Quattro matrimoni e un funerale” di Mike Newell (1994) , “La verità, vi prego, sull’amore”

Firenze, 28 settembre 2018 – Ricordando che domani ricorrerà l’anniversario della morte del grande poeta inglese Wystan Hugh Auden (Vienna, 29 settembre 1973).

Auden è stato un poeta inglese importantissimo nel quadro della letteratura europea del Novecento. Di lui ci ha lasciato questa istantanea singolarmente significativa, in un libro intitolato “Fuga da Bisanzio”, il poeta russo Iosif Brodskij: “Lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile”.

E infatti per Brodskij Auden è stato “la più grande mente del ventesimo secolo”, e già attribuire ad un poeta e non a uno scienziato o a un filosofo o magari a uno statista questo primato suona come qualcosa di davvero eclatante. Spirito molto libero (visse senza troppi problemi anche la propria omosessualità), personaggio trasgressivo dedito abbondantemente al fumo e al bere, Auden fu insieme un inglese nell’accezione più classica e blasonata del termine e un uomo cosmopolita apertissimo, vivendo tra Stati Uniti e Svizzera, ma anche facendo nel corso della sua vita numerosi viaggi e visitando molti Paesi: dalla Germania, alla Cina, all’Islanda.

La sua grandezza va ricondotta però, senz’altro, alla sua produzione di poeta, di cui la poesia di oggi, “Lo scudo di Achille”, ci offre una valido esempio, giocata com’è tra motivi di esibita ispirazione classica e modernità.

Marco Marchi

Lo scudo di Achille



Lei cercò, dietro le spalle di lui,

i vigneti e gli alberi di ulivo,

città di marmo bene amministrate,

e navi sopra il mai domato mare.

Ma lì, sopra il metallo scintillante,

le mani avevano sistemato una

distesa desolata, innaturale,

e il cielo aveva il colore del piombo.



Una spianata anonima, spoglia e scura, senza

un filo d’erba, e nulla lì vicino, non c’era

da mangiare, né un posto dove stare seduti.

Ma radunata già nel suo vacuo aspetto

stava una moltitudine difficile a distinguersi,

un milione di occhi e di stivali in fila

senza espressione in faccia, in attesa di un segno.



Una voce al megafono dimostrò – senza volto,

statistiche alla mano, con toni secchi e piatti

come il luogo – che alcune cause erano giuste.

Non ci furono applausi, nulla venne discusso;

colonna su colonna marciaron nella polvere

portando stretta in cuore la loro convinzione

la cui logica, altrove, li portò alla rovina.



Lei cercò, dietro le spalle di lui,

le devozioni rituali, i fiori

bianchi delle giovenche inghirlandate,

le offerte e i sacrifici per gli dei.

Ma lì, sopra il metallo scintillante,

dove doveva esserci un altare

vide nel luccicar della fucina

una scena del tutto differente.



Una zona era chiusa con del filo spinato;

lì ufficiali poltrivano annoiati (qualcuno

raccontava storielle) e le guardie sudavano

nel giorno caldo. In massa, gente umile e comune,

stava fuori a guardare, immobile e muta.

E tre figure pallide, erano spinte intanto,

legate, verso pali piantati nel terreno.



Tutto quanto al mondo ha misura o qualità,

ciò che sopporta un peso, e pesa sempre uguale

stava in mano altrui; e loro, miseri, non potevano

sperare aiuto, né aiuto venne. I nemici fecero

quel che vollero, e quanto di peggio poteva esserci

fu: la vergogna; persero l’orgoglio e morirono,

nel loro essere uomini, prima dei loro corpi.



Lei cercò, dietro le spalle di lui,

gli atleti intenti ai loro giochi, danze

aggraziate dove uomini e donne muovono

le membra a tempo, veloci, veloci…

Ma lì, sopra lo scudo scintillante,

non c’era posto per piste da ballo

le sue due mani avevano disposto

un campo soffocato dalle erbacce.



Un porcospino irsuto bighellonava in quel

niente, inutile e solo; un uccello si alzò

in volo, sfuggendo alla sua pietra preferita:

ragazze violentate, due ragazzi che ne

accoltellano un terzo; roba di tutti i giorni

per lui, che mai conobbe un mondo di promesse

mantenute, o di lacrime piante sul pianto altrui.



L’armaiolo dalle labbra sottili,

Efesto, zoppicò via, e la sua angoscia

gridò Teti dal petto scintillante

di fronte a ciò che il dio aveva forgiato

per Achille, suo figlio, l’uccisore

di uomini, il forte dal cuore d’acciaio

che non avrebbe avuto vita lunga.‎

The Shield of Achilles

She looked over his shoulder

For vines and olive trees,‎

Marble well-governed cities

And ships upon untamed seas,‎

But there on the shining metal

His hands had put instead

An artificial wilderness

And a sky like lead.‎

A plain without a feature, bare and brown,‎

No blade of grass, no sign of neighborhood,‎

Nothing to eat and nowhere to sit down, ‎

Yet, congregated on its blankness, stood

An unintelligible multitude,‎

A million eyes, a million boots in line, ‎

Without expression, waiting for a sign.‎

Out of the air a voice without a face

Proved by statistics that some cause was just

In tones as dry and level as the place:‎

No one was cheered and nothing was discussed;‎

Column by column in a cloud of dust

They marched away enduring a belief

Whose logic brought them, somewhere else, to grief.‎

She looked over his shoulder

For ritual pieties,‎

White flower-garlanded heifers,‎

Libation and sacrifice,‎

But there on the shining metal

Where the altar should have been,‎

She saw by his flickering forge-light

Quite another scene.‎

Barbed wire enclosed an arbitrary spot

Where bored officials lounged (one cracked a joke)‎

And sentries sweated for the day was hot:‎

A crowd of ordinary decent folk

Watched from without and neither moved nor spoke

As three pale figures were led forth and bound

To three posts driven upright in the ground.‎

The mass and majesty of this world, all

That carries weight and always weighs the same

Lay in the hands of others; they were small

And could not hope for help and no help came:‎

What their foes like to do was done, their shame‎

Was all the worst could wish; they lost their pride

And died as men before their bodies died.‎

She looked over his shoulder

For athletes at their games,‎

Men and women in a dance

Moving their sweet limbs

Quick, quick, to music,‎

But there on the shining shield

His hands had set no dancing-floor

But a weed-choked field.‎

A ragged urchin, aimless and alone, ‎

Loitered about that vacancy; a bird

Flew up to safety from his well-aimed stone:‎

That girls are raped, that two boys knife a third,‎

Were axioms to him, who’d never heard

Of any world where promises were kept,‎

Or one could weep because another wept.‎

The thin-lipped armorer,‎

Hephaestos, hobbled away,‎

Thetis of the shining breasts

Cried out in dismay

At what the god had wrought

To please her son, the strong

Iron-hearted man-slaying Achilles

Who would not live long.‎‎

Wystan Hugh Auden

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