Pasolini quarant’anni dopo

VEDI I VIDEO Pier Paolo Pasolini legge “Le ceneri di Gramsci” , L’inizio di “Accattone” , Il finale di “Mamma Roma” , “Io sono una forza del passato” (da “La ricotta”) , “Meditazione orale” , L’orazione funebre di Alberto Moravia Firenze, 2 novembre 2015 – Ricordando che quarant’anni fa, il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini fu assassinato al Lido di Ostia e segnalando questo evento in programma a […]

VEDI I VIDEO Pier Paolo Pasolini legge “Le ceneri di Gramsci” , L’inizio di “Accattone” , Il finale di “Mamma Roma” , “Io sono una forza del passato” (da “La ricotta”) , “Meditazione orale” , L’orazione funebre di Alberto Moravia

Firenze, 2 novembre 2015 – Ricordando che quarant’anni fa, il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini fu assassinato al Lido di Ostia e segnalando questo evento in programma a Firenze per giovedì 5 novembre: Pasolini: la Poesia e la Storia

La testimonianza poetica di Pasolini si origina da una chiamata di tipo squisitamente linguistico: una chiamata legata a una parola dialettale come “rosada”, rugiada, sentita risuonare in Friuli in un mattino inondato di sole dell’estate del 1941; una chiamata suggestiva quanto cogente, religiosamente folgorante come nelle conversioni, destinata a siglare l’intera, complessa vicenda artistica e intellettuale pasoliniana.

Pasolini sarà da quel giorno, prima di tutto, un poeta, e la poesia, in tutte le sue praticabili “forme”, sarà l’elemento fondante e unificante della sua presenza nel mondo, del suo messaggio. Un’obbedienza fattasi immediatamente scrittura (“E scrissi subito dei versi”, come testimonierà Pasolini stesso, riferendosi alle Poesie a Casarsa), che presto, per gradi ma con crescente sicurezza, implicherà per lui l’apertura adulta dell’“io” agli altri e al confronto con la Storia: la Storia con le sue ragioni e le sue assurdità, le sue contraddizioni e le sue violenze, le sue ingiustizie e le sue possibilità di riscatto.

Dalla Scoperta di Marx che suggella L’usignolo della Chiesa Cattolica alle Ceneri di Gramsci, dalle raccolte degli anni Sessanta La religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa a Trasumanar e organizzar e La nuova gioventù, la produzione in versi di Pasolini registrerà, tra partecipazione collettiva e difesa della persona, implicazioni costanti e a ben vedere sempre più drammaticamente efficienti. Mai dismessa non solo come “vocazione” ma anche come preciso genere letterario, la poesia rivendicherà nel corso degli anni, tra “passione” e “ideologia” e all’insegna di un inesausto sperimentalismo, modalità comportamentistiche, prospettive d’intervento e fiducie ad essa ascrivibili sempre diverse.

Pasolini, com’è noto, aveva a suo tempo individuato nell’endecasillabo e nella terzina dantesca in aggiornata accezione novecentesco-pascoliana un affidabile strumento per raccontare il sociale e la cronaca che si fa Storia: una moderna narratività poetica che trova nei poemetti delle Ceneri di Gramsci la sua tenuta più compatta e il suo momento più alto. Poi, già con le raccolte degli anni Sessanta, la bilancia oscilla pericolosamente: quel tentato equilibrio non regge, quella forma sperimentata con profitto si sfalda e la poesia cambia faccia, prestandosi a mille oltraggi e a mille nuove identificabilità, sino a fare di se stessa, di se stessa com’era un tempo, una contraddizione instante o un recidivo simultaneismo.

Basti pensare al Pasolini che autoterapeuticamente scrive, tra canzoniere d’amore e poesia perduta come l’amato dedicatario Ninetto Davoli, L’hobby del sonetto, ridisegnando nel segreto, in parallelo alle poesie civili confluite in Trasumanar e organizzar, una zona di libertà da quel dovere sociale così pressantemente sentito: un dovere che, falliti i suoi allargati obiettivi d’amore umanamente fondanti e qualificanti, ha analogamente deluso, rendendo impronunciabile la parola “speranza”.

Il poeta si trasforma, la poesia si trasforma, e tuttavia quest’ultima si riconferma strumento privilegiato dell’eresia di Pasolini, finanche sua modalità costitutiva, nel farsi voce alla Rimbaud della disappartenenza di un congenito, consustanziale maladjustement protestatorio nei confronti del reale.

È naturale (e in ciò dissentirei, nella valutazione complessiva del percorso di Pasolini poeta, anche da troppo facili arresti a cronologie alte, laddove cioè la poesia è più agevolmente identificabile come tale, secondo parametri maggioritari condivisi e così sociologicamente autorizzati) che la poesia si faccia diversa, irriconoscibile, disposta a pagare il prezzo della sua diversità nell’affrontare ogni volta da capo il mondo e la Storia, a subire le conseguenze degli scandali e delle delusioni che – sfigurata e irriconoscibile come si presenta – essa stessa determina.

Anche la parola di Pasolini intellettuale si fa all’accorrenza intrattabile e distante come la testimonianza polemica di un vero eretico. È allora che la sua eresia parla per emblemi sibillini, diventa poetico trobar clus, verbo oscuro ribelle alla semantica limitante della convenzione, voce votata all’entropica polisemia e alla deriva di senso.

Il linguaggio diventa simbolico-mistico, inaudito e non integrabile, volto ad operare su un piano di per sé interessato a presentarsi altro, alieno e discontinuo, allestendo un vaticinio problematico e indecente, potenzialmente incompreso, che non ricerca ascolto solidale perché gode, indecentemente appunto, della sua intrattabilità eccessiva e paradossale: dall’antipoetico manifesto in poesia e dalla giornalistica poesia d’intervento sul fatto del giorno al culto, manieristico, solipsistico e dolente sonetto lirico à la manière de Shakespeare.

Marco Marchi

Le ceneri di Gramsci

I

Non è di maggio questa impura aria

che il buio giardino straniero

fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo

di bave sopra gli attici giallini

che in semicerchi immensi fanno velo



alle curve del Tevere, ai turchini

monti del Lazio… Spande una mortale

pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale

maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,

la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo

e ingenuo sforzo di rifare la vita;

il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore

era ancora vita, in quel maggio italiano

che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano

dei nostri padri – non padre, ma umile

fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina

(ma non per noi: tu, morto, e noi

morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,

lo vedi?, che riposare in questo sito

estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,

solo ti giunge qualche colpo d’incudine

alle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi


mucchi di latta, ferrivecchi, dove

cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.

Scelte, dedizioni… altro suono non hanno

ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno

che attutiva la vita resta nella morte.

Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte

di gente laica le laiche iscrizioni

in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni

sfrenate senza scandalo son arse

le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,

le ironie dei principi, dei pederasti,

i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.

Qui il silenzio della morte è fede

di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio

del Parco, discreto muta: e la città

che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,

vi perde il suo splendore. La sua terra

grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera

umidità che chiazza i muri intorno

a smotti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni

sentori d’alga… quest’erbetta stenta

e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,

o fieno marcio, e quieta vi prelude

con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude

di clima, dolcissimo di storia, è

tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che

ricorda altro umido; e risuonano

– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano

laghi spersi nel cielo, tra praterie

verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie

invocazioni…

III

Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza

e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato

per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato

quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa

di diverso, forse, di più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosi

d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto

qui nella quiete delle tombe – e insieme –   

quale ragione – nell’inquieta sorte

nostra – tu avessi stilando la supreme

pagine nei giorni del tuo assassinio.


Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell’antico dominio,

questi morti attaccati a un possesso


che affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,

quel vibrare d’incudini, in sordina,


soffocato e accorante – dal dimesso

rione – ad attestarne la fine.

Ed ecco qui me stesso… povero, vestito

dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito

la sporcizia delle più sperdute strade,

delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più rade

ho di queste vacanze, nel tormento


del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento

e ingenuo amore sensuale


così come, confuso adolescente, un tempo

l’odiai, se in esso mi feriva il male

borghese di me borghese: e ora, scisso


– con te – il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di mistico

disprezzo, la parte che ne ha il potere?


Eppure senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non volere

del tramontato dopoguerra: amando


il mondo che odio – nella sua miseria

sprezzante e perso – per un oscuro scandalo

della coscienza…

IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere

con te e contro di te; con te nel cuore,

in luce, contro di te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore

–
 nel pensiero, in un’ombra di azione –

mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;

attratto da una vita proletaria

a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria

sua lotta: la sua natura, non la sua

coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,

a darle l’ebbrezza della nostalgia,

una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia

giusto ma non sincero, astratto

amore, non accorante simpatia…

Come i poveri povero, mi attacco

come loro a umilianti speranze

come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante

mia condizione di diseredato,

io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato

più assoluto. Ma come io possiedo la storia,

essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V

Non dico l’individuo, il fenomeno

dell’ardore sensuale e sentimentale…

altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare…

Ma in esso impastati quali comuni,

prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni

gli interni e esterni atti, che lo fanno

incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,

ipoteca di morte, istituite

a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite

le sue spoglie al Verano, è cattolica

la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;

e ancora più dentro: ha bibliche astuzie

la sua coscienza… e ironico ardore

liberale… e rozza luce, tra i disgusti

di dandy provinciale, di provinciale

salute… Fino alle infime minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,

Autorità e Anarchia… Ben protetto

dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,

e con quale coscienza!, vive l’io: io,

vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio

accorante, violento… Ah come

capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,

tra i cipressi stancamente sconvolti,

presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley… Come capisco il vortice

dei sentimenti, il capriccio (greco

nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco

celeste del Tirreno; la carnale

gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia

come dentro il ventre di un’enorme

cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme

di pini, barocchi, di giallognole

radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno

goethiano, il giovincello ciociaro…

Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro

il nocciolo, pei viottoli che il buttero

della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte

curve della Versilia, che sul mare

aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale

campagna interamente umana,

espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,

i blu vitrei sul rosa… Di scogli,

frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,

erta, dove il sole lotta con la brezza

a dar suprema soavità agli olii

del mare… E intorno ronza di lietezza

lo sterminato strumento a percussione

del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come

morta nella sua vita: gridano caldi

da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi

nel bruno della faccia, tra la gente

rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,

d’abbandonare questa disperata

passione di essere nel mondo?

Pier Paolo Pasolini

(da Le ceneri di Gramsci, 1957; il poemetto eponimo qui proposto è del 1954)

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