Ancora Pasolini. ‘La terra di lavoro’

VEDI I VIDEO “La terra di lavoro” letta da Pier Paolo Pasolini , “Il canto popolare” letto da Pier Paolo Pasolini , “Profezia” letta da Toni Servillo , “Che paese meraviglioso era l’Italia…” letto da Toni Servillo Firenze, 2 aprile 2015 – Pasolini ha sempre voluto esprimere se stesso e con se stesso tutta la realtà. […]

VEDI I VIDEO “La terra di lavoro” letta da Pier Paolo Pasolini , “Il canto popolare” letto da Pier Paolo Pasolini , “Profezia” letta da Toni Servillo , “Che paese meraviglioso era l’Italia…” letto da Toni Servillo

Firenze, 2 aprile 2015 – Pasolini ha sempre voluto esprimere se stesso e con se stesso tutta la realtà. Nel fare questo ha partecipato al suo tempo in uno sforzo appassionato, culturalmente e poeticamente nutritissimo, di autonarrazione ed autointerpretazione che lo ha condotto lontano e lo ha isolato. Ma in lui una consapevolezza risulta ben radicata: «I poeti appartengono sempre a un’altra civiltà» (Bestia da stile).

E’ così che Pier Paolo Pasolini, prima di tutto un poeta, consegna alla poesia e non ad altri mezzi  le sue spregiudicate registrazioni, i suoi spiazzanti proclami eretici e le sue profezie. «Mendico per i ghetti» del mondo, «cupo d’amore», il profeta in versi non può elemosinare alleanze e consenso, ma deve ancorarsi eroicamente alla sua natura di «animale senza nome», retoricamente «libero d’una libertà» che massacra, alla sua unica certezza infelice: «di essere il reietto di un raduno / di altri: tutti gli uomini, senza distinzione, / tutti i normali, di cui è questa vita» (La realtà, in Poesia in forma di rosa).

La poesia – «tentazione di santità», secondo l’efficacissimo ossimoro dissimulato nei versi della Realtà – sembra ancora permettere di sfuggire, dopo un libro come Le ceneri di Gramsci, ad ogni ipostatizzazione, dal momento che coglie e vocalizza l’antitesi; in lei «tutto può avere una soluzione», perché non pretende coerenza e affidabilità, strettoie soffocanti del sistema, ma sopporta l’unica misura di libertà e d’igiene intellettuale consentita all’artista, lo scandalo: «Nessun artista in nessun paese è libero. / Egli è una vivente contraddizione». L’intima sineciosi non consente in effetti a Pasolini lunghe epochè, trascinandolo piuttosto in continue, esplosive scelte di contraddizione, quasi che questo costituisse l’unico modo per mantenersi coerente con la sua intangibile, tenebrosa ed accecante distanza.

Nessuna patria gli appartiene, nessuna casa lo può più proteggere dal suo interiore rovello; non può smettere di sfuggire perché è poeta nell’intimo, è il «segnato», vittima e profeta. Come già dicono versi di Roma 1950: «Non tornerò / dalla periferia / di Roma o del Mondo, secondo il destino del Figliol Prodigo, / su cui voi sareste pronti a scommettere, / borghesi volgari e borghesi squisiti, /o meglio, tornerò, se così è umano, / ma andando sempre più lontano». I confini della denuncia, tra delusioni e nuove solidarietà alternative intraviste, si allargano, e un indirizzo di sperimentazione operativa per via poetica, al di là di ogni futura, esibita ed aggravata  impraticabilità della speranza, si riconferma.

Marco Marchi

La terra di lavoro

Ormai è vicina la terra di lavoro, 

qualche branco di bufale, qualche 

mucchio di case tra piante di pomidoro,

èdere e povere palanche. 

Ogni tanto un fiumicello, a pelo 

del terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nero 

come uno scolo. Dentro, nel treno 

che corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno, 

gli stracci bagnati: se fuori 

è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolore 

a dolore – senza averne sospetto.

Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto, 

con le spalle contro lo schienale, 

con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male, 

miseri e scuri come cani 

su un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani, 

sugli zigomi un pietoso rossore, 

in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storie 

non dice al vicino attento, 

se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento, 

a dirti che non ha fatto nulla 

di male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla 

una creatura che dorme nel fondo 

d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno 

dicendo parole come il mondo nuove – 

con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove, 

come una bestia che finge d’esser morta; 

si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta 

la voce che a ogni istante le ricorda 

la sua povertà come una colpa.

Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda, 

senza neanche accorgersi, sospira. 

Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile, 

un giovane è accanto al finestrino, 

nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino. 

Guarda fisso la montagna, il cielo, 

le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero, 

non vede niente, il colletto rialzato 

per freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato. 

L’umidità ravviva i vecchi 

odori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassetti 

freschi di strame umano.

E dai campi, ormai violetti,

viene una luce che scopre anime, 

non corpi, all’occhio che più crudo 

della luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine. 

Anime che riempiono il mondo, 

come immagini fedeli e nude

della sua storia, benché affondino 

in una storia che non è più nostra. 

Con una vita di altri secoli, sono

vivi in questo: e nel mondo si mostrano 

a chi del mondo ha conoscenza, gregge 

di chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge 

odio servile e servile allegria: eppure 

nei loro occhi si poteva leggere

ormai un segno di diversa fame – scura 

come quella del pane, e, come 

quella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nome 

di speranza: e quasi riacquistato 

all’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnate 

di viventi, la luce del riscatto. 

Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivacco 

di intimiditi passeggeri, 

d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri. 

Nemico è oggi a questa donna che culla 

la sua creatura, a questi neri

contadini che non ne sanno nulla, 

chi muore perché sia salva 

in altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché arda 

in altri servi, in altri contadini, 

la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico. 

Gli è nemico chi straccia la bandiera 

ormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele, 

dai bianchi assassini la difende. 

Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretende 

che lottino in una fede che ormai è negazione 

della fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazione 

del vecchio popolo, e gli è nemico 

chi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituito 

è cosi, in un giorno di sangue, 

il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste anime 

è quella, ancora, del vecchio meridione, 

l’anima di questa terra è il vecchio fango.

Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione 

senti ormai che essa non conduce 

a nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luce 

che rade, con la pioggia, d’improvviso 

zolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradiso 

che qui fuori sui crinali di lava 

dà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bava 

grigia si perde Napoli, ai meridiani 

temporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani, 

l’altro su questa terra abbandonata 

agli sporchi orti, ai pantani,

ai villaggi grandi come città. 

Si confondono la pioggia e il sole 

in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia, 

non più nostra – in fondo al cuore 

di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore 

che fa più grande della storia la vita. 

Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

Pier Paolo Pasolini

(1956; da Le ceneri di Gramsci)

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