A grande richiesta. ‘La pioggia nel pineto’ di Gabriele D’Annunzio

VEDI IL VIDEO “La pioggia nel pineto” letta da Roberto Herlitzka BONUS DI FINE AGOSTO “Nella belletta” Firenze, 31 agosto 2012 – Nonostante le molte storie pubbliche e private raccontabili, la vera Firenze di D’Annunzio resta la Capponcina, la fantasmagorica villa sui colli di Settignano abitata dal divino Gabriele tra il 1898 e il 1910, il suo distante e […]

VEDI IL VIDEO “La pioggia nel pineto” letta da Roberto Herlitzka

BONUS DI FINE AGOSTO “Nella belletta”

Firenze, 31 agosto 2012 – Nonostante le molte storie pubbliche e private raccontabili, la vera Firenze di D’Annunzio resta la Capponcina, la fantasmagorica villa sui colli di Settignano abitata dal divino Gabriele tra il 1898 e il 1910, il suo distante e inaccessibile eremo delle Muse, la sua dimora da nuovo Principe rinascimentale fatta a misura d’anima: per creare.

Di lassù – secondo l’evocato modello di Segantini «religioso pittore delle cime» e «anacoreta estatico» –, D’Annunzio parla ai fiorentini e a tutto il mondo. Di lassù parlano per lui, nel silenzio, i motti, le citazioni, le parole aggiunte ai mille oggetti raccolti, collezionati. Parlano al loro padrone e del loro padrone, parlano al visitatore valutato degno, magari con il Poeta assente: non calato in città per ideali o carnali cimenti, né con la Duse in tournée in Egitto o in Grecia, né a cavalcare impavido, panico e selvaggio, per battigie e pinete della Versilia, ma semplicemente occupato in altre stanze.

Parlano, quelle didascalie, risuonano, producono simboli e suggestione. Ecco «Coperto il serba» accanto al focolare, tra rami secchi di melograno allusivi di un progetto letterario rimasto incompiuto, «Divae Salamandrae sacrum» in ricordo di una bestiola promossa a «genius loci» che avrà fortuna con Papini; il pindarico «Ottima è l’acqua» che rispunterà sul soffitto del Bagno blu del Vittoriale, e il motto di Nicolò Grasso «Chi ’l tenerà legato?» su un rustico giogo abruzzese che oggi solo qualche trattoria di campagna molto capace potrebbe prendere in seria considerazione. E ancora i francescani e sufficientemente perversi (da Sera fiesolana«Clausura» e «Silentium», o all’aperto, dove l’abitare di D’Annunzio continua, dove l’artefice non interrompe la sua opera, i pagani «All’ulivo di Pallade Atena dagli occhi chiari» e «Vedo» e «Ascolto» in serie alternata, circolare, infinita.

La sapienza dei segni della vita, la prodigiosa capacità di cogliere cifre e sigle del mistero promossa dalla cólta retorica da casa, è prerogativa dell’esteta e del superuomo, personaggi vocati all’eccellenza e al primato miticamente ricongiunti alle origini di quel sapere. Vita e cultura confuse, natura ed arte come un «dio bifronte», parole come oggetti e, insieme, come spolpate sonorità, accordi, note. Uno sterminato vocabolario dell’esistente tra corpo e anima cui partecipano i realistici paesaggi toscani che hanno fatto da sfondo alle inimitabili imprese dell’eroe e ai suoi riposi, alle sue estati confluite in unico diario, nell’unico canto di un’unica Estate: Alcyone.

Marco Marchi  

La pioggia nel pineto

Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

Ascolta. Piove

dalle nuvole sparse.

Piove su le tamerici

salmastre ed arse,

piove su i pini

scagliosi ed irti,

piove su i mirti

divini,

su le ginestre fulgenti

di fiori accolti,

su i ginepri folti

di coccole aulenti,

piove su i nostri volti silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

t’illuse, che oggi m’illude,

o Ermione.  

Odi? La pioggia cade

su la solitaria

verdura

con un crepitìo che dura

e varia nell’aria

secondo le fronde  più rade,

men rade.

Ascolta. Risponde

al pianto il canto

delle cicale

che il pianto australe

non impaura,

né il ciel cinerino.

E il pino

ha un suono, e il mirto

altro suono, e il ginepro

altro ancóra, stromenti

diversi

sotto innumerevoli dita.

E immersi

noi siam nello spirto

silvestre,

d’arborea vita viventi;

e il tuo volto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome

Ermione.  

Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale

a poco a poco

più sordo

si fa sotto il pianto

che cresce;

ma un canto vi si mesce

più roco

che di laggiù sale,

dall’umida ombra remota.

Più sordo e più fioco

s’allenta, si spegne.

Sola una nota

ancor trema, si spegne,

risorge, trema, si spegne.

Non s’ode voce del mare.

Or s’ode su tutta la fronda

crosciare

l’argentea pioggia

che monda,

il croscio che varia

secondo la fronda

più folta, men folta.

Ascolta.

La figlia dell’aria

è muta; ma la figlia

del limo lontana,

la rana,

canta nell’ombra più fonda,

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su le tue ciglia,

Ermione.  

Piove su le tue ciglia nere

sì che par tu pianga

ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,

par da scorza tu esca.

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pèsca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l’erbe,

i denti negli alvèoli

son come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,

or congiunti or disciolti

(e il verde vigor rude

ci allaccia i mallèoli

c’intrica i ginocchi)

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri volti  silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti  leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude  novella,

su la favola bella

che ieri

m’illuse, che oggi t’illude,

o Ermione.

Nella belletta

Nella belletta i giunchi hanno l’odore

delle persiche mézze e delle rose

passe, del miele guasto e della morte.



Or tutta la palude è come un fiore

lutulento che il sol d’agosto cuoce,

con non so che dolcigna afa di morte.



Ammutisce la rana, se m’appresso.

Le bolle d’aria salgono il silenzio

Gabriele D’Annunzio

(da Alcyone, 1903)

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