La sfida è tra PdR e Ditta

E’ di tutta evidenza che se Matteo Renzi avesse fatto l’errore di lasciare la guida del Pd, «la Ditta» lo avrebbe già licenziato da palazzo Chigi. L’avrebbe fatto senza giusta causa, o meglio: in nome della causa di una sinistra che esiste solo per perpetuare la propria classe dirigente. «La Ditta», è il modo con […]

E’ di tutta evidenza che se Matteo Renzi avesse fatto l’errore di lasciare la guida del Pd, «la Ditta» lo avrebbe già licenziato da palazzo Chigi. L’avrebbe fatto senza giusta causa, o meglio: in nome della causa di una sinistra che esiste solo per perpetuare la propria classe dirigente. «La Ditta», è il modo con cui Pierluigi Bersani chiama il partito. Ma più che una ditta appare un ente: uno di quegli enti pubblici progressivamente svuotati di senso e di risorse sì che l’intero loro sforzo si riduce all’autoconservazione in quanto tale. Sul libero mercato elettorale, la Ditta ha sempre fallito. Ha avuto successo solo quando, come accadde con Romano Prodi, nascose il proprio marchio dietro facce o loghi altrui. Ma in tal caso è inevitabile il conflitto tra un partito condannato alla conservazione e un governo vocato al rinnovamento. Più volte i titolari della Ditta hanno cercato di uscire dal vicolo cieco della sinistra tradizionale, ma sempre sono tornati sui propri passi per paura di perdere l’anima. Nei giorni scorsi abbiamo ricordato il tentativo di Massimo D’Alema. Al congresso del ’97, l’allora segretario del Pds prese di petto la Cgil di Cofferati e scandì: «La mobilità, la flessibilità, sono innanzitutto un dato della realtà… Dobbiamo negoziare il salario e i diritti di chi sta nel lavoro nero, nel precariato, anziché stare fuori dalle fabbriche con in mano una copia del contratto nazionale del lavoro. Se non ci mettiamo su questo terreno, rappresenteremo sempre di più soltanto un segmento del mondo del lavoro». Un segmento, aggiunse, fisiologicamente destinato a ridursi. Era vero. E dopo 17 anni lo è ancor di più. Renzi sta dunque combattendo oggi la battaglia che i D’Alema e i Bersani (che in questa fase preferiscono brandire «una copia del contratto nazionale del lavoro») non ebbero la forza di vincere vent’anni fa. Idee nuove, per camminare, richiedono gambe nuove. Una ricomposizione sul merito della riforma del lavoro è possibile. Ma se le gambe più vecchie dovessero infine prendere una direzione diversa non è detto che per Renzi sarebbe una sciagura. Un’eventuale scissione a sinistra farebbe ancor più del Pd quel PdR (Partito di Renzi) evocato da uno degli avversari più leali e perbene del premier: Stefano Fassina. La sfida, dunque, è tra PdR e Ditta. E il PdR (che, a lume di naso, potrebbe avere più appeal del Pd) rischierebbe di perderla solo se si scoprisse che il segretario bluffa. Che, ad esempio, promette di introdurre il sussidio universale di disoccupazione senza avere le risorse necessarie.

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