L’orizzonte a cui mirare è Patchanka: un disco di tal Manu Chao e della sua sconosciuta band, i Mano Negra, che nel 1988 decide di scombinare l’ordine costituito, mescolando alla bella e meglio il reggae con lo ska, la chitarra flamenco con il rock, e poi il punk, il funk e una babele di lingue, tra francese, inglese, arabo e spagnolo. Un gran casino organizzato, insomma, che in poco tempo diventerà uno stile musicale a sé stante.
La patchanka, diventata nel frattempo un genere, la sposeranno quattro anni dopo quei tre ragazzi, nobilitando il dialetto piemontese a lingua artistica. Un fatto epocale, visto che dialetti in musica, escluso il napoletano, lingua artistica a sé, erano all’epoca una cosa che prima di allora, si erano permessi solo De Andrè con il genovese di Creuza de ma e Jannacci con il milanese, contando sul fatto di essere già De Andrè e Jannacci. Ecco: pochi anni dopo quel primo disco dei Mau Mau, in Italia lo fece praticamente chiunque e con qualunque parlata locale, dando vita alla nuova musica popolare che negli anni ’90 e 2000 ha sdoganato i dialetti tutti.
Premessa doverosa per dire che se – dopo uno scioglimento, un fugace ritorno e una nuova pausa – un gruppo di nome Mau Mau pubblica un disco, l’obbligo fatto agli amanti della musica è quantomeno di ascoltarlo. Anche se i tempi non sono più gli stessi, con Manu Chao che suona sempre più di rado, Capossela a fare il poeta e i Modena City Ramblers – una volta onnipresenti -, oggi sempre meno nominati.
Si è fatto un gran casino, sì, ché la patchanka altro non è che energia e confusione. E questo 8000 km – manco a dirlo – quell’energia l’ha conservata tutta, preziosa e intatta. Sarà l’estro dei fuoriclasse di Morino, dei Barovero e dei Tatè Nsongan, o forse c’è dell’altro. Ad esempio la di fermarsi, dopo tanta festa. E capire che a saltellare su di un palco ogni sera, a vent’anni come a cinquanta, c’è una gran bella differenza. “Per fermarsi ci vuol talento”, dicono infatti i Mau Mau, nel brano che chiude il disco, e mai è stato così vero.
Come sarebbe stato questo album, se non fossero passati dieci anni esatti di oblio dall’ultimo ‘Dea’, a sua volta frutto di una pausa? Meglio non domandarselo. Molto meglio chiudere gli occhi e sognare il circo immortale di ‘Moira’, viaggiare nella ‘Grande pianura’ che rinasce dopo il terremoto, attraversare con lo sguardo quegli ‘8000 km’ che ci separano dall’Africa e prendere questo disco come un regalo inaspettato della maturità e del tempo. Dono di chi ha ancora voglia di ballare e mescolare. E se ci riesce ancora è perché ha capito quando è il momento di riprendere fiato. Come diavolo faranno d’altronde i ciclisti a dominare certe vette? Dosando il fiato, e apprezzando il silenzio. Serenamente pronti a scatenare l’inferno. Grazie, Mau Mau.
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