MUSICA / Porridge Radio, suona male da dio

“Sono annoiata a morte, parliamone”. L’invito è dei Porridge Radio, una band inglese a trazione femminile (tre donne e un uomo), tutta corde e rullante, appena uscita con ‘Every bad’, il loro secondo album, se si escludono le prime autoproduzioni. La loro noia, resa così creativa, brano dopo brano, non potrebbe arrivare nel momento storico […]

“Sono annoiata a morte, parliamone”. L’invito è dei Porridge Radio, una band inglese a trazione femminile (tre donne e un uomo), tutta corde e rullante, appena uscita con ‘Every bad’, il loro secondo album, se si escludono le prime autoproduzioni. La loro noia, resa così creativa, brano dopo brano, non potrebbe arrivare nel momento storico migliore. Il disco, d’altronde, ha avuto la ventura di uscire lo scorso marzo, in piena pandemia. Forse un segno, poiché quel che è indubbio è che la cifra sonora del quartetto di Brighton – e questo disco (prodotto in Indiana dalla Secretly Canadian) ne è la prova – ha temi e sonorità che oggi si sposano alla perfezione con le costrizioni in cui tutti viviamo a causa del Covid-19.

Non che sia una piena novità, la loro cifra: lo stagno da cui pescano è ben popoloso. Dentro c’è di tutto: il post-punk inglese e i suoi derivati, i Talking Heads, indubbiamente, tastiere comprese, la semplicità scarna e spigolosa dei White Stripes, quella tensione tipica dei Cure, voce stridula compresa, certa fragile aggressività dell’indimenticata Dolores O’Riordan e dei suoi Cranberries e tutto il mondo lo-fi o Diy che dir si voglia.

Tipico caso di lavoro per esclusione, il loro: diminuisci orpelli e limature, aumenta i decibel e lo sporco, e tutto ciò che sei si mostrerà amplificato e senza veli. Se sei buono sarai ottimo, se sei scarso sarai pessimo. Così hanno fatto i Porridge Radio, con esiti che lasciano ben sperare per il futuro. D’altronde lo stile di Dana Margolin, che ci mette il grosso con testi, voce e chitarra solista, è di quelli che, piaccia o non piaccia, non può lasciare indifferente. Capelli cortissimi, testi finto-indifferenti che nascondono bene una certa introspezione, e una voce delicatissima che ricade in gola entro la fine di ogni brano, quando lo schema consolidato della sua cifra narrativa (una ripetizione di strofe sempre più esasperata, in un crescendo di energia e passione) arriva all’apice della tensione espressiva. Tutto si può dirle, non che non abbia trovato il modo di lasciare il segno. Sorretta per fortuna da una band in grado di sorreggere il cantato in perfetta sincronia di crescendo e rarefazioni: alle tastiere c’è Georgie Stott, Maddie Ryall suoan il basso e Sam Yardley la batteria. Un quartetto da tenere d’occhio, questo è indubbio.