Macchina del tempo sperimentata a Napoli. "Funziona con il grafene"

Il prototipo di un gruppo internazionale di giovani fisici teorici dell’università partenopea

La locandina del film 'Ritorno al futuro' (Fotoprint)

La locandina del film 'Ritorno al futuro' (Fotoprint)

Napoli, 19 marzo 2017 - È UN PROTOTIPO piccolissimo, meno di un millimetro, e si può osservare solo al microscopio elettronico, ma il riuscito esperimento condotto all’Università di Napoli evoca l’inimmaginabile: i viaggi nel tempo, o più precisamente il passaggio da un punto all’altro dello spaziotempo, o da un universo a un altro universo, proprio come ipotizzato da Albert Einstein e dal suo allievo Nathan Rosen negli anni Trenta con la teoria dei wormhole, letteralmente buco di verme, i cunicoli spaziotemporali dei quali si cerca di confermare sperimentalmente l’esistenza.

Il prototipo promette anche importanti applicazioni tecnologiche ed è stato messo a punto a Napoli da un gruppo internazionale di giovani fisici teorici (un greco, un iraniano, uno slovacco e un giapponese) coordinato da Salvatore Capozziello, docente cinquantenne di Astronomia e astrofisica nell’ateneo campano. L’articolo che descrive il prototipo è in via di pubblicazione sull’International Journal of Modern Physics.

Professor Capozziello, nel vostro esperimento è più importante l’aspetto teorico o quello pratico? «Sono importanti entrambi. Sul piano teorico il nostro lavoro propone una soluzione della cosiddetta equazione ponte di Einstein-Rosen; ce ne sono anche altre, ma il punto nodale riguarda quale tipo di materia può generare le specifiche soluzioni, posto che lo spaziotempo è incurvato dalla materia. Poiché esperimenti con oggetti stellari sono impensabili, abbiamo provato a costruire un’analogia in laboratorio, utilizzando il grafene, una struttura purissima di atomi di carbonio, un materiale molto malleabile, usatissimo nelle nanotecnologie. La nostra idea è stata questa: è possibile, usando il grafene come analogo dello spaziotempo, realizzare un wormhole?»

E cos’è successo? «Abbiamo visto che effettivamente unendo due fogli di grafene, fra questi si forma un buco, come se avessimo messo in comunicazione due strutture spaziotemporali analoghe».

È questo il cuore della scoperta? «Sì, ma c’è dell’altro, perché siamo andati anche oltre le nostre aspettative. Ci siamo accorti che ‘drogando’ il grafene, cioè mettendo al suo interno degli atomi penta o eptavalenti, cioè con 5 o 7 legami anziché i sei del grafene puro, succede una cosa interessante: si generano correnti entranti e correnti uscenti nel grafene. Quindi il wormhole, secondo la nostra analogia, non è solo una struttura ipotizzabile e stabile, ma è possibile farvi passare informazioni, nel nostro caso la corrente elettrica».

Perché è importante questo passaggio di energia elettrica? «Perché la corrente passa da una parte all’altra del wormhole a resistenza nulla, il passaggio è cioè istantaneo, mentre normalmente all’interno di un materiale si incontrano resistenze e rallentamenti».

È da qui che può nascere un’applicazione tecnologica? «Sì, noi pensiamo che sia possibile riprodurre il prototipo a livello industriale e in prospettiva creare dispositivi con grandi prestazioni per l’elettronica».

Quali sono ora i vostri obiettivi? «Sono due. Il primo è creare a Napoli o altrove un centro di eccellenza in cui mettere insieme nanotecnologia e cosmologia, quindi l’infintamente piccolo e l’infinitamente grande. Il secondo è accedere a fondi europei, in modo da strutturare il lavoro e dare occasioni di ricerca a giovani studiosi. Vanno messi a punto anche gli aspetti teorici, ad esempio passando in rassegna tutte le soluzioni di wormhole analoghe alla nostra. Diciamo che c’è una sinergia fra gli aspetti puramente speculativi di fisica fondamentale e l’aspetto tecnologico e applicativo di fisica della materia. Sono ottimista. Si è già fatto avanti un importante centro svedese specializzato nelle nanotecnologie. Siamo solo ai primi passi».