Domenica 19 Maggio 2024
ANDREA MARTINI
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'Salò o le cento giornate di Sodoma', l'apologia della disumanizzazione

Girato quattro mesi prima della morte del regista, spesso gli è stato attribuito un valore di 'testamento'

Pier Paolo Pasolini dietro la macchina da presa

Pier Paolo Pasolini dietro la macchina da presa

Roma, 3 settembre 2015 - Salò o le 120 giornate di Sodoma  fu finito di girare solo quattro mesi prima dell’assassinio di Pasolini e fu mostrato postumo. Siccome per molti versi si tratta di un film esplicitamente mortifero, o comunque sulla morte – sicuramente sulla morte del sesso - molti hanno voluto attribuirgli un valore di testamento. Il giudizio non è del tutto convincente perché la ricchezza debordante dei significati, la costruzione dantesca, la lucidità del progetto sono avvicinabili più a una vitalità dolorosa che a una perdita di forze. A dare retta alla cronaca e alle recenti ricostruzioni giudiziarie, nei giorni, se non nelle ore, che precedettero il suo omicidio Pasolini sarebbe stato sul punto di recuperare del materiale cinematografico (in pratica dei rulli di negativo impressionato) che era stato sottratto dalla villa in cui era stato girato il film. Sicché un nesso con la tragica scomparsa sarebbe lecitamente ipotizzabile in ogni  caso.

Rivisto oggi Salò o le 120 giornate di Sodoma si rivela labirintico nella sua complessa architettura e per lo spettatore odierno il desiderio di sottrarsi alla sua gelida narrazione è più forte della voglia di abbandonarsi ad essa. Definito opportunamente film in forma di enigma, Salò appartiene a quelle opere che non riescono a superare indenni la barriera del tempo, sebbene se ne intuisca facilmente ingegno, coraggio, lucidità e persino riuscita formale. La sua freddezza contrasta oltretutto con l’empatia che quasi tutti i film pasoliniani suscitano (basti pensare a Mamma Roma, Il Vangelo, La Ricotta) e la sua ridondanza barocca si oppone al segno scarno delle opere migliori.  Il film affresca l’universo terribile e grottesco del fascismo di Salò prendendo a prestito l'immaginazione sessuale di un grande ribelle: Sade, il divino  marchese, rivoluzionario e conservatore, violento e scandaloso intellettuale, rappresentante di un Illuminismo che per eccesso di razionalità degenera nel suo opposto. Mutuato quindi dal testo di  Sade, strutturato in danteschi gironi (Antinferno, Girone delle Manie, della Merda e del Sangue) il racconto pasoliniano pone al centro quattro rappresentanti del potere, un Duca, un Vescovo, Il presidente del Tribunale e il presidente della Banca Centrale che, con l’aiuto di quattro megere abili con i loro racconti ad attizzarne i desideri, danno sfogo alle loro più disparate e aberranti forme di sessualità sui corpi di giovani, uomini e donne, rapiti con la forza da SS e repubblichini.  La villa dove i potenti sono convenuti  –  che potrebbe richiamare l’idea di tante ville adibite dai fascisti a luoghi di tortura – vede la realizzazione materiale di atti (per lo più descritti da Sade) facilmente classificabili tra le patologie sessuali più note (dal sadismo più estremo alla coprofagia). Il processo si conclude con un'orgia finale dove, tra efferatezze e riti profani, torture, sevizie, amputazioni e uccisioni sono perpetrate sulla base di una sorta di dantesca pena del contrappasso.

Pasolini a quel tempo, siamo nel 1975 quindi circa cinquant’anni fa, non cercava lo scandalo, anche se, naturalmente postumo, l’ottenne. Cercava di mettere in guardia contro la disumanità della società dei consumi, disumanizzante così come è disumano il potere esercitato come mezzo di soddisfazione fine a se stesso. In fin dei conti l’orrore trasformato in quotidiana normalità è il frutto di una società fatta di parole, leggi e comportamenti concepiti per estirpare all'umanità la sua autonoma capacità pensante. Sostanzialmente  Salò o le 120 giornate di Sodoma può essere letto come il prosieguo di un pensiero pasoliniano già tante volte espresso, anche se esposto con altri mezzi.