Lunedì 6 Maggio 2024
SANDRO ROGARI
Politica

Fallimento di un'utopia

POCHI ricordano che il grande ispiratore, involontario, del Manifesto di Ventotene fu Luigi Einaudi. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati dal regime fascista in questa isoletta ventosa al largo del golfo di Napoli, gli chiesero di far loro recapitare i suoi scritti del primo dopoguerra. Einaudi, che era stato maestro di Rossi, li accontentò. Così nell’estate del 1941 nacque la prima versione del Manifesto, poi integrato e riscritto più volte a quattro mani, e infine diffuso da Eugenio Colorni, che ci aggiunse del suo, tramite la moglie, la tedesca Ursula Hirschmann che poteva muoversi liberamente.  È passato alla storia come il Manifesto fondante del federalismo europeo, ma, in realtà, intendeva essere molto di più. Soprattutto, aspirava ad essere il programma di un nuovo, grande partito europeo, rivoluzionario e transnazionale che cogliesse l’attimo fuggente del dopoguerra segnato dal disfacimento degli stati nazionali, secondo Rossi e Spinelli, per costruire qualcosa di diverso. Il diverso era la Federazione Europea. 

CHI PERÒ andasse a cercare nel Manifesto istituti e processi di questo progetto politico resterebbe deluso. Il Manifesto è una grande petizione di principio. Poiché la guerra stava inverando la profezia di Einaudi che solo la liberalizzazione dell’accesso alle materie prime e l’apertura dei mercati europei avrebbe impedito una nuova guerra, bisognava attrezzarsi per il dopoguerra. Era una nobile utopia. Infatti, l’eco dei partiti ai quali si rivolsero fu a dir poco tiepida. Scartati i comunisti, nemici dichiarati della Federazione europea, il trio si rivolse a socialisti e a Giustizia e Libertà. Sandro Pertini sottoscrisse, ma poi ritrattò, costretto dal suo partito. Fra i giellisti firmò solo Dino Roberto, mentre presero le distanze Riccardo Bauer e Nello Traquandi. Era la chiara avvisaglia che i partiti, in Italia e a spasso per l’Europa, avrebbero fatto muro, come puntualmente avvenne. Ma non era il solo passaggio utopico del Manifesto. Lo era anche la convinzione che gli stati nazionali si disfacessero, mentre la storia del dopoguerra ha dimostrato il contrario.  Poi, tutto il Manifesto traeva ispirazione da una visione eurocentrica del mondo che proprio la seconda guerra mondiale si sarebbe occupata di liquidare. Quando Spinelli e Rossi buttarono giù la prima stesura, gli Usa non erano ancora entrati in guerra; ma lo erano quando il Manifesto fu riscritto e integrato. Era divenuto evidente che la vittoria contro la Germania avrebbe significato l’egemonia americana e sovietica, due potenze estranee a quell’Europa cui pensavano i nostri.

L’INCONTRO dei tre capi di stato e di governo, a 75 anni dalla prima stesura del Manifesto, ha dunque un valore ideale: ripartire dal luogo simbolo della nuova Europa per andare avanti. Basta non dimenticare che i nostri fallirono e che la storia d’Europa ha poi imboccato strade assai più modeste e assai meno nobili di quelle pensate allora. Poi, se Spinelli, Rossi e Colorni vedessero che, tre quarti di secolo dopo, non è il presidente della Federazione europea a rendere omaggio alla tomba di Spinelli, bensì i vertici di tre Stati nazionali, avrebbero di che rammaricarsi e magari di che riflettere. Quindi, ripartiamo pure da Ventotene, ma lontano dai sogni. L’incontro serve per istruire la pratica degli incontri che la signora Merkel, leader implicita di un’Europa che non c’è, è in procinto di avere con molti capi di stato e di governo. Il vertice di Ventotene è preparatorio. Dai tempi di De Gaulle alla riunificazione della Germania, l’Europa è stata retta dal direttorio franco tedesco. Poi siamo entrati nell’era dell’egemonia tedesca. Il migliore auspicio è che nella nuova trilaterale inseguita da Renzi, la Germania non sia afflitta da presunzione di onnipotenza. Il risveglio potrebbe essere amaro. Per tutti, anche per Berlino.