Venerdì 3 Maggio 2024

Race - Il colore della vittoria. La vera storia di Jesse Owens

La storia dell’atleta nero che nel 1936 nello stadio di Berlino, sotto gli occhi infastiditi di Hitler, vinse quattro medaglie d'oro

Stephan James interpreta Jesse Owens in Race - Il colore della vittoria (Olycom)

Stephan James interpreta Jesse Owens in Race - Il colore della vittoria (Olycom)

Roma, 31 marzo 2016 - Più volte il presidente Obama ha ripetuto che il processo di integrazione razziale deve, almeno in Usa, più allo sport che a qualsiasi provvedimento legislativo. La competizione sportiva accomunando nella fatica, nella speranza della vittoria, nel dolore della sconfitta, gli uomini e le donne di tutte le razze rende uguali più di ogni quota sociale determinata per comma scritto. Le Olimpiadi hanno conservato nel tempo un alto valore simbolico proprio perché fin dal tempo di Atene hanno esaltato l’aspetto egualitario implicito nel famoso spirito di partecipazione.

Il cinema americano ha raccontato spesso la performance sportiva: si sa lo sport è anche metafora della società. Si può dire che Hollywood non ha risparmiato nessuna pratica sportiva, esaltando spesso gli aspetti dell’ evoluzione sociale che le varie discipline potevano di volta in volta offrire. Quando poi gli eventi Olimpici o anche semplicemente sportivi hanno incrociato la Storia il cinema si è precipitato a raccontare quelle gesta con calore se non con enfasi. 

La lista è lunga. Limitiamoci all’ultimo: L’invincibile di Clint Eastwood dove il football segna la fine dell’apartheid sudafricano. Ci si poteva quindi meravigliare che non fosse stata ancora raccontata la vicenda unica e paradigmatica di Jesse Owens l’atleta nero che nel 1936 nello stadio di Berlino, dove la superiorità della razza ariana avrebbe dovuto essere sancita dai trionfi sportivi, vinse a, dispetto dei nazisti, ben quattro medaglie d’oro (100,200 metri staffetta 4x100 e salto in lungo). 

Dopo vari tentativi non andati in porto arriva da oggi sugli schermi Race – Il colore della vittoria diretto da Stephen Hopkins e felicemente interpretato da Stephan James, già conosciuto come John Lewis in Selma – La strada per la libertà.  Il film racconta volontariamente solo una piccola parte della storia dell’atleta sfuggendo quindi alla fastidiosa etichetta di biopic e si concentra su due atti: la progressiva affermazione sportiva avvenuta tra mille difficoltà nell’ambito dell’Università dell’Ohio dove inopinatamente straccia vari record mondiali e nell’eccezionale exploit olimpico avvenuto sotto gli occhi di Hiltler. 

Il film di Hopkins mette in parallelo i due razzismi che Owens sente sulla pelle:  quello all’interno del college che riflette l’atteggiamento di buona parte degli Usa degli anni trenta e quello diverso ma altrettanto umiliante dell’Europa che il nazismo amplifica trasformandolo in ideologia ma che alligna in tutto il vecchio continente. In entrambi i casi superato con l’appoggio della famiglia e della compagna Ruth Solomon  (Shanice Banton) che cresce la figlia di Jesse lontano dai campi ma soprattutto grazie alla determinazione che sembra venirgli da quel respiro e da quella speciale visione della meta che solo i grandi campioni posseggono. 

Senza troppa retorica, grazie anche al tempo trascorso, rinunciando alla leggenda in favore della cronaca  Race – Il colore della vittoria riporta alla luce un evento storico-sportivo unico mettendo in luce anche aspetti trascurati o oscurati dalla memoria. Come il saluto accennato del dittatore nazista che sembra esservi stato e la mancata esultanza del democratico presidente Roosevelt che, attento alla logica elettorale, non inviò nemmeno il rituale telegramma di felicitazioni.

Spettacolarità e emozione sono garantiti come da copione per questo genere i film. Ma una certa sottigliezza va comunque sottolineata. In parallelo agli eventi di Owens viene messa bene in evidenza questa volta quella querelle politico-sportiva che riguarda la partecipazione  a eventi olimpici quando il terreno dei giochi soffre, a dir poco, di scarsa democraticità. Infatti anche nel ’36 negli Usa  c’era chi voleva disertare Berlino (come accadrà poi per Mosca nell’80). E ancora oggi il dibattito è aperto. E non è detto che purtroppo non rimanga d’attualità.