Martedì 30 Aprile 2024

Šostakovič e l’umiliante sinfonia per Stalin

Il grande compositore russo nella stagione delle purghe. Dagli attacchi del regime alle riconciliazioni, mentre scriveva (anche) capolavori

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di Lorenzo Guadagnucci

Dmitrij Šostakovič una volta disse di sé, commiserandosi: "Una marionetta, un pupazzo di carta appeso a un filo". Così si sentiva il grande compositore russo, scampato alle purghe staliniane mentre attorno a lui colleghi, amici, familiari cadevano uno dopo l’altro, chi inviato in Siberia, chi messo sbrigativamente al muro. E dire che Šostakovič aveva esordito molto male nel 1936, irritando il sovrano sovietico, appassionato di musica e assiduo frequentatore di teatri, con la sua opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk: Stalin, per niente contento degli stridori e delle dissonanze di quell’originale lavoro, oltre che frastornato da una sovradimensionata sezione di ottoni collocata casualmente proprio sotto il suo palco, aveva platealmente lasciato il Bol’šoj al terzo atto. Un gesto di stizza di cui aver paura. Un paio di giorni dopo una dura stroncatura sulla Pravda, ispirata probabilmente dallo stesso Stalin, pareva aver segnato la morte civile, se non quella fisica, del compositore, all’epoca trentenne. E invece Šostakovič, per quanto troppo innovativo e sperimentale per la pretesa di realismo e vicinanza al popolo del regime sovietico, riuscì sempre a cavarsela.

La sua storia, messa a confronto con le vicende di altri musicisti, letterati, intellettuali suoi contemporanei, come fa Giorgio Ferrari nel suo libro Il naufragio di Šostakovič. Arte e cultura sovietica negli anni del terrore staliniano (Neri Pozza), spicca per l’esito finale – la salvezza della vita e la libertà dalla prigione – ma anche per il peso che il compositore dovette portare per tutto il corso della sua vita, sempre in bilico fra adesione al regime e dissidenza. Aveva la valigia metaforicamente – e qualche volta anche materialmente – pronta nell’ingresso di casa, nell’attesa che gli agenti della polizia politica venissero a prelevarlo. La sua fu dunque un’esistenza di sorda sofferenza, segnata da un’angosciosa tensione che condizionò il suo lavoro creativo, spingendolo, in alcuni frangenti, a vistosi compromessi con il regime.

La Quinta sinfonia ultimata nel 1937, per esempio, è un’opera che accetta i dettami del formalismo socialista: "È la risposta di un artista sovietico a una giusta critica", commenta un giornale della capitale. E poi c’è quel viaggio negli Stati Uniti, nel 1949, che si tradusse in un’umiliazione, tale da alienargli la stima e la fiducia degli ammiratori occidentali. Šostakovič si trovò – bon gré mal gré, come dicono i francesi – a farsi laudatore, con la più trita retorica, del socialismo reale; nella conferenza stampa al Walford Astoria arrivò a sconfessare Igor Stravinskij, il musicista che più amava.

Un’umiliazione cocente per il compositore che qualche anno prima, nel pieno della guerra, in un momento peggio che buio – era il 5 marzo 1942, lui era stato evacuato dalla sua Leningrado e portato a Kujbyshev (oggi Samara) – aveva commosso i suoi concittadini e connazionali con la prima esecuzione, trasmessa anche via radio, della vigorosa, emozionante Settima sinfonia, detta “di Leningrado“, la sinfonia della resistenza all’invasione, che fu poi eseguita dalla decimata e stremata orchestra della sua città natale, da mesi sottoposta ad assedio dall’esercito tedesco, con la musica amplificata affinché il nemico potesse sentire quel moto d’orgoglio.

La storia di Šostakovič è emblematica, ma per contrasto, di quel che fu la vita-non vita culturale nell’Unione sovietica.

Molti suoi contemporanei, le menti più forti e originali del tempo, finivano uno dopo l’altro nelle fauci insaziabili dell’uomo del Cremlino, mentre lui resisteva – sempre impaurito e incerto, con l’autostima in costante picchiata – finché si trovò a vestire gli imbarazzanti panni di uomo vetrina dello stalinismo.

Tutt’altra sorte rispetto all’eroico Osip Mandel’štam, eliminato per una poesia, mai messa su carta ma spesso declamata (anche davanti a chi lo arrestò), versi che sbeffeggiavano Stalin, apostrofato di “montanaro del Cremlino“. O ad Anna Achmatova, poeta famosissima nell’Urss, che ogni giorno si metteva in coda davanti alla prigione di Kresty per portare cibo al figlio Lev, detenuto per colpire proprio lei. O ancora rispetto al temerario Michail Bulgakov, che Stalin censurava, proibendo la pubblicazione dei suoi lavori, ma intanto seguiva, incuriosito da un romanzo di cui si favoleggiava e che vedrà la luce solo dopo la morte dell’autore (1891-1940): era Il maestro e Margherita, uscito in versione integrale nel 1967 in Germania. Per non dire dell’infelice poeta Marina Cvetaeva, morta suicida nel 1941, negli stessi giorni in cui viene fucilato il marito Sergej Efron, con la figlia Ariadna (anche lei perseguitata) che rimproverò gli ammiratori della madre: "Per ciascuno di coloro a cui le poesie di mia madre piacciono, io provo inconsciamente rabbia: dov’eri e come l’hai aiutata quando era ancora viva?"

Sotto lo stalinismo la musica, l’arte, la letteratura affrontarono la prova “impossibile“ della censura, dell’oppressione e della minaccia permanente: ognuno fu obbligato – ingiustamente – a compiere scelte decisive e non libere, col “compagno Stalin“ arbitro insindacabile, coi suoi capricci, della sorte di ciascuno.

Eppure, nonostante tutto, a dimostrazione che l’atto creativo è sempre imprevedibile, quegli anni tremendi ci hanno trasmesso, oltre che innumerevoli atti di servilismo e piaggeria, anche alcune opere immortali.

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