Giovedì 18 Aprile 2024

Quelle vite in trincea appese a un amuleto

Chiodi, corni, santini, teschietti: simboli e superstizioni dei soldati nella Grande Guerra. E il generale Diaz ne aveva una collezione

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"Se inoltrerai questo articolo ad almeno dieci persone, si realizzeranno tutti i tuoi desideri": è la nota formula della catena di Sant’Antonio che, ancor oggi, inonda social e posta elettronica. Quest’uso si sviluppò particolarmente durante Prima guerra mondiale, quando circolavano fra i soldati biglietti simili con preghiere di protezione.

Di questo e altre interessantissime commistioni fra il devozionale e le credenze magiche tratta il recente volume Il soldato dell’invisibile di Luca Sancini (editore Gaspari) dedicato alla superstizione nella Grande Guerra.

In quel tragico conflitto, per la prima volta, la morte sopraggiungeva improvvisa e invisibile: una granata di artiglieria, il tiro di un cecchino, il crollo di una galleria, perfino le silenziose freccette metalliche gettate, a scatole, dagli aerei. Il militare creava così stratagemmi di resistenza materiale alla precarietà rispetto a quelle forze superiori che tenevano appese a un filo le vite di soldati, sottufficiali, ufficiali.

Non solo la truppa, infatti, coi suoi rituali scaramantici, ma anche gli alti comandi erano influenzati da questa percezione comune e sottile, tanto che perfino il generalissimo Luigi Cadorna, pur essendo una mente logica e scientifica, dovette dolorosamente rimuovere dall’incarico il generale Ettore Mambretti, valido comandante, ma vessato da una sfortuna senza pari: qualsiasi suo attacco falliva, creandogli intorno la triste fama dello jettatore.

Il generale Armando Diaz, poi, da buon napoletano, era solito raccogliere aghi, chiodi, ferri di cavallo, bottoni, spaghi, di cui riempiva interi cassetti.

E, in effetti, fu fortunato, tanto da raccogliere i frutti in gran parte seminati dal suo predecessore.

Gli amuleti erano tanti: i teschietti (persino sui distintivi degli Arditi); i santini; le croci, assemblate in tutti i materiali, con l’”artigianato di trincea”; i “brevi”, sacchetti contenenti polvere di pitture sacre e le medaglie devozionali, ancor oggi ritrovate in grandi quantità dai cercatori di reperti bellici.

Gli animali-mascotte era un classico: quasi ogni reggimento aveva il suo uccelletto, scoiattolo, o cagnolino. I bersaglieri erano soliti mantenere una capra: il corno animale difendeva dal male anche per la sua forma vagamente fallica, che rievocava l’antichissimo “fascinum” dei Romani, un piccolo membro virile portatore di fecondità e abbondanza. E ancora: camicie benedette, scapolari, reliquie indossate sotto le uniformi e l’attenzione alle “coincidenze significative” – teorizzate da Jung solo nel ‘50 – e alle cabale, fra date, numeri ed eventi luttuosi spesso esorcizzati toccandosi le stellette e il naso.

Dei rituali offre testimonianza un giovane Mussolini, bersagliere, che scriveva: "Non bisogna accendere in tre con lo stesso fiammifero, altrimenti muore il più piccolo dei tre. Accendiamo in due. Fumo".

Qualcosa del genere resiste ancor oggi sull’accensione delle sigarette: se sono molte le espressioni linguistiche che, di quella guerra, permangono nel linguaggio comune, in pochi conoscono anche i lacerti sopravvissuti di quella drammatica autodifesa dall’”invisibile”.

 

 

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