Mercoledì 24 Aprile 2024

Cocciante: "Quando scappai da Saigon e non tornai più"

Cocciante festeggia i 50 anni dal suo primo album e ripercorre la sua vita avventurosa: "Mai dimenticherò i colori del Vietnam"

Riccardo Cocciante (Ansa)

Riccardo Cocciante (Ansa)

Il Premio Arte & Cultura che Imaginaction gli consegna domani a Forlì, prima giornata dell’edizione 2021 del festival del videoclip, rappresenta per Riccardo Cocciante l’abbrivio di un anno speciale in cui cade il 50° anniversario di Mu, l’album su cui è germinata una delle grandissime carriere della nostra canzone d’autore.

Non era iniziata benissimo.

"Il cognome Cocciante alla Rca sembrava troppo complicato, così mi chiamarono Conte. E come Riccardo Conte nel ‘68 incisi un provino di 4 pezzi fra cui So di una donna. Con quel pezzo mi mandarono ad una trasmissione televisiva, Cantastampa. C’era pure Venditti. Ma, una volta rientrati a Roma, a me restituirono il contratto dicendo: tenga, lei non ci interessa più".

Doccia fredda.

"Dovetti ricominciare da capo. Produssi un nuovo 45 giri per un’altra casa discografica, la Delta. Mi trovavo a Parigi, disperato perché di qua dalle Alpi non si muoveva niente, quando ricevetti una telefonata con cui la Rca, tornando sui suoi passi, mi chiedeva un album intero, anche se non più come Riccardo Conte, ma come Richard Cocciante".

Cos’era successo?

"Al contrario di certi suoi collaboratori, il direttore artistico della Rca Ennio Melis aveva intravisto qualcosa dietro la mia voce rauca e l’aspetto atipico".

Cosa le era rimasto della sua infanzia vietnamita?

"Avendo vissuto a Saigon fino all’età di 11 anni ricordo i colori, gli odori, i sapori. Roma m’era sembrata una città cupa e grigia al confronto".

Era il Vietnam della guerra, della contrapposizione tra Nord e Sud.

"Tutto è confuso dal tempo, ma ricordo che dopo Diem Bien Phu ci salvammo per il passaporto italiano di mio padre. Con quello francese di mia madre sarebbe stato più difficile. Non sono più tornato a Saigon, anzi Ho Chi Minh City come si chiama oggi; prima perché non potevo, poi perché non volevo distruggere i bellissimi ricordi che m’aveva lasciato l’infanzia".

La storia sembra ripetersi…

"Sì, ma la Kabul di questi giorni è più caotica della Saigon di allora; la caduta della città fu meno repentina di quella della capitale afghana e i rimpatri si svolsero in maniera meno drammatica. E poi vietcong non erano estremisti, mentre i taliban sì".

La sua nuova scommessa è una sua opera sulla figura di Turandot.

"Sì. La notizia della scomparsa di Micha van Hoecke mi ha molto rattristato perché regia e coreografie sono sue. Abbiamo già scritto e provato tutto. C’è solo da portarlo in scena".

Quanto c’è di suo (e del paroliere Pasquale Panella)?

"Tutto. Nelle mie opere popolari racconto quel che sono. Quando portammo al debutto Notre-Dame de Paris qualcuno mi disse: somiglia a te".

Sono 15 anni che, oltre a Turandot, parla anche di un’opera sui Decabristi esiliati in Siberia da Nicola I dopo il tentato colpo di stato del 1825. Qual è lo stato dell’arte?

"Lavoro finito. Lo metteremo in scena a San Pietroburgo in un momento successivo all’operazione cinese. Con Panella abbiamo scritto entrambi in maniera molto rapida quasi contemporaneamente".

In questi 15 anni è nato dell’altro?

"Sì, un nuovo album di inediti che conto di pubblicare l’anno prossimo: ho composto un’altra opera… completamente diversa da quelle scritte finora".

L’hanno cantata in tante, da Mina a Céline Dion. Chi ha lasciato il segno più profondo?

"Tutte a loro modo hanno aggiunto qualcosa d’importante con la loro interpretazione. Laura Pausini, ad esempio, ha reinventato Io canto in maniera straordinaria. All’inizio non ero d’accordo sulla scelta e, invece, aveva ragione lei. Fiorella Mannoia, invece, s’è scelta Margherita che è una canzone difficilissima, ma è riuscita a fare pure lei qualcosa di superbo. Questo per non parlare di Mina".

Riccardo Cocciante direttore artistico del Festival di Sanremo oggi chi chiamerebbe?

"Non è assolutamente la mia ambizione. Ma sono affascinato dalla diversità e sono stato contento della vittoria di un gruppo come i Måneskin".

Per lei gli artisti sono esseri imperfetti con la grande capacità di trasformare i difetti in pregi. Qual è stato il più imperfetto di tutti?

"Grazie a Dio sono tutti un po’ imperfetti, perché è proprio la loro atipicità a renderli interessanti. Ho lavorato, ad esempio, con Vangelis che era autodidatta e non scriveva una nota, ma suonava per istinto tirando fuori dalle sue mani enormi, decisamente inadatte alla tastiera, una genialità enorme. Pure Mick Jagger non canta perfettamente, eppure ad avercene di performer capaci di mettere l’anima sul palco come fa lui".

Questione di feeling?

"Sì, ma anche qualcosa di più; la non omologazione e quel velo di mistero capace di rendere sempre un po’ imprevedibili".

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