Torino, 12 maggio 2024 – Le relazioni, la provincia, il patriarcato. Gli oggetti che dicono la verità, quelli che contengono memoria e la coincidenza fatale, talvolta, tra cura e possesso, farmaco e veleno. L’urgenza di tacere, l’impossibilità d’esistenza di verità assolute e, spesso, di conoscere davvero chi abbiamo accanto. Sono molti i temi cari a Chiara Valerio che ricorrono nel romanzo giallo Chi dice e chi tace (Sellerio), selezionato per la dozzina del Premio Strega 2024.
Il suo libro è ambientato a Roma e Scauri, il luogo dove lei è cresciuta. Dentro Scauri c’è Costantinopoli, la casa-comune simbolo di libertà, e dentro a essa Vittoria, enigma dalla quale si dipanano le storie dei personaggi. Sembra un meccanismo di scatole cinesi...
"Mi pare che questa storia per essere raccontata avesse bisogno di una serie di casse acustiche, o come dice, scatole cinesi. Non ho mai ceduto alla seduzione della differenza tra forma e contenuto. È tutto dentro Lea. Scauri, Roma, Vittoria, Maria, Silvia e Giulia, i ferrovieri, Filomena. Sappiamo tutto e solo ciò che Lea pensa, ascolta, dice, suppone. Non sappiamo niente altro. La seguiamo e lei ci conduce, inciampando, in un luogo che fino alla morte di Vittoria pareva non esistere. E questo luogo, vagamente, incertamente, ma definitivamente è il desiderio".
Il compito di aprire le scatole e mettere insieme i pezzi è di Lea Russo, il cui equilibrio viene messo a dura prova dalla morte di Vittoria e dalle scoperte che farà. Cosa sconvolge di più Lea?
"Di aver passeggiato a fianco a un altro essere umano, a una donna, per venti anni e non saperne niente. Di avere avuto a portata di mano un’altra vita e non averlo capito. Di essere soddisfatta, paga, felice nella sua vita e di sentire l’impulso di voler comunque andare altrove, a vedere cosa c’è, intuendo pure che forse non tornerà indietro. La sconvolge il coraggio che non sapeva di avere".
Scauri è "un paese che somiglia a una pianta, con le radici invisibili sottoterra": ci sono l’immobilità e i pregiudizi, la Barbie, il Postal Market e la ricorrenza di comportamenti riconducibili al patriarcato. È un ritratto della provincia degli anni ’90 o della società in generale?
"Spero sia un ritratto affidabile della provincia degli anni Novanta, che sono gli anni della mia adolescenza, e confido dica qualcosa su questo tempo. Adesso che sono tra chi legge Chi dice e chi tace e non sono già più la persona che lo ha scritto, mi pare dica che i corpi, le loro limitazioni, esitazioni, incertezze e imperfezioni, sono ciò che ci consentirà di mantenere viva la memoria del fatto che l’altro è irriducibile e inassimilabile a noi. Che sollievo il corpo".
La riflessione forse predominante nel romanzo è quella sulla verità. In “La matematica è politica” lei ha scritto: "La matematica è stata il mio apprendistato alla rivoluzione, dove per rivoluzione intendo l’impossibilità di aderire a qualsiasi sistema logico, normativo, culturale e sentimentale in cui esista la verità assoluta...". La matematica e la scrittura consentono una libertà che non si cura delle verità assolute?
"Lo spero. Ma spero che sia vivere, campare, innamorarsi, disamorarsi, lavorare, comandare, obbedire, essere in relazione, reagire, mangiare questo o quello, fare l’amore, desiderare che ci abituino a disinteressarci delle verità assolute. Certo, leggere abitua a stare da soli, a non essere intrattenuti, a decidere quanto dura un libro e dove leggerlo, a gestire tempo e spazio, che anche prima di Kant erano concetti importanti. Leggere, azione che in sé assomma tante cose, insegna a non curarsi delle verità assolute".
Vittoria dice la verità senza dire nulla, Lea la cerca e alla fine è più confusa di prima. Chiara Valerio dice la verità o lascia questo compito al lettore?
"Non so se Vittoria dice la verità e non so se Lea cerca la verità. A posteriori mi pare un libro su quanto la verità sia sopravvalutata nelle relazioni, sentimentali e non solo. Ognuno cerca la sua, ognuno possiede la sua e l’esercizio, se uno vuole farlo, è quello di cercare di connettere una verità all’altra, anche quando sono verità contraddittorie. Sono una lettrice appassionata e vorace, brada, e spero sempre che nei libri che uno legge, e anche in questo che ho scritto io stessa, ci sia lo spazio perché chi legge ci veda ciò che vuole. Anche una verità".
"Taci, anzi parla", scriveva Carla Lonzi: meglio tacere o meglio parlare?
"Dipende. Non esiste una risposta generale. Fossi il Conte Mosca di Stendhal, o quando lo sarò, potrò risponderle: Tacere, meglio tacere. Adesso non sono ancora pronta".
"Volevo raccontare che cura e possesso hanno gli stessi gesti: sono veleno e farmaco, dipendono dalla proporzione", ha detto. Si può uccidere nel tentativo di curare?
"Pensi ai pupazzetti dei bambini. I pupazzetti preferiti. I pupazzetti più coccolati. Peluche con le alopecie, senza occhi, bruciati, senza un arto".
Nel suo romanzo sembra predominare l’indagine interiore. La scelta del giallo è un espediente per indagare emozioni e situazioni?
"Sì, non mi fido dei romanzi che raccontano avventure essenzialmente interiori, e quella di Lea lo è, così ho pensato che la struttura classica del giallo mi avrebbe sostenuto nel rivelare la natura".
Nel libro lei sfiora il tema della libertà di scelta a fine vita.
"Penso che, fino a un certo punto, o così è stato per tutti i miei nonni, in ospedale si diceva, portatevelo a casa. Che significa: non possiamo fare più niente. E penso che quel “portatelo a casa” sia un grande sollievo quando un essere vivente riesce ad andarsene senza troppo dolore. Penso pure che quando invece c’è dolore, sia giusto che un corpo che sta soffrendo decida di smettere di soffrire. Dica basta. La mitologia del soffrire non mi ha mani convinto. Vittoria a un certo punto lo dice nel romanzo, non siamo fatti per soffrire, non bisogna accondiscendere alla sofferenza".