Lunedì 20 Maggio 2024
ALDO BAQUIS
Esteri

Scontro tra Biden e Netanyahu: "Stop alle armi americane se Israele invade Rafah". Ma Bibi tira dritto: avanti soli

Il presidente degli Stati Uniti si schiera contro l’operazione via terra e minaccia una reazione dura. I negoziatori lasciano il Cairo senza progressi, sospese le trattative per la tregua e il rilascio degli ostaggi.

"Se dovremo restare soli, resteremo soli. E se necessario, combatteremo con le unghie": così il premier Benjamin Netanyahu si è espresso ieri al Paese dopo aver appreso della decisione di Joe Biden di non fornire ad Israele altre armi offensive, se dovesse estendere le operazioni a Rafah. "Siamo alla vigilia dell’Anniversario della nostra indipendenza. 76 anni fa – ha ricordato Netanyahu – eravamo pochi contro molti. Non avevamo armi, c’era un embargo. Ma grazie alla forza del nostro spirito, all’eroismo e alla unità – riuscimmo a vincere. Oggi siamo molto più forti. E le nostre unghie sono molto più affilate. Con l’aiuto del Signore, vinceremo".

Parlando con la Cnn Biden ha comunque precisato che gli Stati Uniti continueranno ancora a puntellare i sistemi di difesa israeliani, fra cui le batterie Iron Dome di intercettamento di razzi. Ma il suo intervento ha avuto un effetto immediato, e negativo. Le trattative per una tregua e per uno scambio di prigionieri sono state sospese, e i negoziatori di Hamas e di Israele hanno lasciato il Cairo senza aver registrato alcun progresso. Intanto la operazione a Rafah, ha poi confermato una fonte israeliana, andrà avanti. Nelle forze armate israeliane c’è viva preoccupazione per la critica svolta nella politica statunitense, che giunge in senso diametralmente opposto alla drammatica notte del 13 aprile quando l’aviazione di Israele assieme ad unità di Usa, Giordania, Gran Bretagna, Francia e di altri Paesi sventarono unite un attacco massiccio di missili e di droni iraniani contro lo Stato ebraico. In particolare, affermano ora fonti militari, "c’è da temere come un congelamento delle forniture militari Usa sarebbe interpretato nella Regione": in primo luogo a Teheran. Nel governo c’è anche chi teme che dopo le sanzioni militari, gli Stati Uniti possano adottare anche mosse politiche o diplomatiche a detrimento di Israele.

Già lunedì, parlando al Museo Yad Vashem di Gerusalemme nel Giorno dell’Olocausto, Netanyahu aveva detto: "Se dovremo restare soli, resteremo soli". Era tetro e prostrato. Il tono del suo intervento era improntato a pessimismo, a tratti quasi fatalistico. In questi giorni il premier appare sempre più isolato. Perfino l’Ungheria – il Paese europeo più vicino alla ideologia del Likud – ha trovato opportuno in questi giorni invitare Mahmud Ahmadinejad, l’ex presidente dell’Iran fautore dell’eliminazione dello Stato ebraico. Mentre Israele si appresta a celebrare l’Indipendenza, Netanyahu ha dato forfait a tre cerimonie centrali: forse anche nel timore di contestazioni come quella da lui patita lunedì a Yad Vashem.

La sua ostinazione a marciare adesso su Rafah (dopo che da oltre tre mesi le forze dell’esercito sono rimaste del tutto statiche dentro la Striscia) ha suscitato stupore non solo fra diversi analisti ma anche nell’ex capo di Stato maggiore, il generale Aviv Cochavi. "Non abbiamo alcun modo di liberare i nostri ostaggi – ha stabilito – se non accettando un accordo che interrompa i combattimenti".

Dunque l’esercito dovrebbe fermarsi. Altri comandanti, in forma privata, rilevano che Hamas sta gradualmente recuperando il controllo della situazione sul terreno nelle zone di Gaza che l’esercito ha abbandonato. In assenza di soluzioni diplomatiche, temono, lo stesso potrebbe accadere un giorno anche al valico di Rafah.