Domenica 6 Ottobre 2024
COSIMO ROSSI
Politica

C’era una volta il politichese. Ora la lingua dei leader è social: "Votami perché parlo come te"

Crusca e Treccani analizzano le nuove parole dei partiti: più “underdog“ e “rosiconi“, meno “compromesso“

Cambia la lingua della politica e la lingua dei leader diventa social

Cambia la lingua della politica e la lingua dei leader diventa social

Roma, 20 maggio 2024 – C’era una volta il politichese: il lessico un po’ intellettualistico delle classi dirigenti. A volte ostico, altre parossistico, fino a scivolare in sinonimo di astrattezza. Vocabolario elitario, ma mai snob, tramite cui la politica esprimeva la propria "superiore" capacità analitica e di persuasione: ai sensi di un’opera di pedagogizzazione delle masse, pervenute alla ribalta della storia e al suffragio universale solo dagli albori del Novecento, oggi desueta e quasi deprecata.

C’era un’eloquenza della politica, che si è ridotta in mero riverbero delle identità telematiche e social come si propagano e riproducono in rete. Dal "votami perché parlo meglio di te" al "votami perché parlo come te". E anche "peggio di te". Odio, banalità, vituperio, turpiloquio compresi e moltiplicati. In un gioco di appropriazione, ripetizione, rigenerazione di ogni vocabolo o locuzione da e per tutti senza fatica né valore; dove la popolarità pervasiva delle leadership si rende diseducativa a scapito del messaggio pedagogico della politica. È quanto risulta dall’analisi su La lingua della neopolitica. Come parlano i leader realizzata dall’accademico della Crusca Michele A. Cortelazzo per i tipi di Treccani. Dal politichese al socialese, passando per il gentese della ggente, con due "g". Ovvero la radicalizzazione dei fenomeni di rispecchiamento e mimesi identitaria da e verso utenti/leader/elettori/pubblico: come fossero interscambiabili.

C’era una volta il politichese della Prima Repubblica. Quello dei "corpi intermedi" e l’"interclassismo", dei "patti tra i produttori" e il "ceto medio riflessivo", delle "convergenze parallele" e il "compromesso storico", dei "casti connubi" e gli "equilibri più avanzati", del "riformismo forte" e i "pensieri lunghi". Non una, ma diverse lingue per differenti culture, reciprocamente comprensibili.

Il "rifiuto" della Prima Repubblica succeduto a Tangentopoli ha coinvolto anche la lingua, con un vero e proprio "rigetto" verso quel lessico complesso, astruso ma affascinante. Le nuove generazioni politiche hanno sempre più adito al paradigma del "rispecchiamento", delle forme dirette, disintermediate, aderenti a un gergo colloquiale esente da riferimenti "alti". Fino all’assunzione dei più triti stereotipi dell’hate speech. Ma anche della severa disciplina, in odor di censura, di quel che è (politicamente) corretto affermare.

Il neopolitichese è un coacervo di vecchia e nuova grammatica della politica: una miscela di specialismi, modismi, banalità, approssimazioni e populismi. Parole in prevalenza vaghe, modi di dire, anglismi, tecnicismi resi contagiosi dalla recente pandemia ("resilienza" per tutti). Alcuni condivisi, altri divisivi. A seconda soprattutto dell’uso che ne fanno e danno i leader che li pronunciano. Difatti Cortelazzo dedica un capitolo a tutti maggiori partiti e le loro scelte lessicali.

Per il linguista la palma dell’innovazione lessicale va a Matteo Renzi e in seconda battuta a Matteo Salvini. Dando però atto alla premier Giorgia Meloni d’essersi fatta latrice di un’originale strategia di recupero di parole desuete nel resto dell’arco politico, col suo lessico improntato a coerenza, serietà, orgoglio, patria, nazione, sovranità. Anche se niente è stato più efficace di quando, alla conferenza stampa d’inizio anno, ha reso tutti partecipi dei suoi bisogni lasciandosi scappare: "sto a morì regà".