Legare i requisiti per la pensione, età e contributi, al lavoro che si volge e al luogo di residenza. E, dunque, in relazione alla cosiddetta aspettativa di vita. E, dunque, arrivare a realizzare una griglia di condizioni di uscita diversificate in relazione alla natura del lavoro che si svolge nel segno del principio "lavoro che fai, pensione che hai". È la suggestione, obiettivo, di tutti coloro che a livello teorico voglio mettere mano alla riforma previdenziale. Da ultimo, è contenuta in uno studio dell’era Tridico (il presidente dell’Inps voluto dai grillini) e che ieri è tornato in campo, rilanciato come ipotesi da discutere al tavolo della previdenza. Ma, come spiegano fonti del governo, si tratta di uno studio e non di un’ipotesi concreta alla quale mettere mano nell’immediato, perché richiederebbe anni e anni di messa a punto dell’operazione, che non si può certo realizzare nei due mesi della manovra. Una posizione ribadita dall’Inps stessa: "Quanto riportato sulla partecipazione attiva dell’Inps attraverso la formulazione di una proposta di riforma delle pensioni è privo di fondamento. L’Inps – si legge in una nota diramata dall’Isitituto – è da sempre impegnato nella raccolta, sistematizzazione e condivisione dei dati relativi alle materie di pertinenza, per offrire al Paese una panoramica fondamentale sulle dinamiche demografiche, sociologiche ed economiche. I dati raccolti possono rappresentare una risorsa per l’elaborazione di scelte politiche e amministrative, ma non è nei compiti dell’Istituto fare proposte al legislatore in materia di welfare. L’impegno dell’Inps è e rimarrà sempre quello di garantire la tutela dei diritti dei cittadini e la sostenibilità del sistema previdenziale italiano, nel rispetto delle competenze e dei ruoli istituzionali".
Lo studio in ballo si fonda sull’analisi dei dati dell’Inps sul pagamento delle pensioni e sulla durata delle stesse pensioni. Si scopre che un dirigente vive più a lungo di un operaio o che un pensionato di determinate aree geografiche ha una longevità più elevata di quella di un pensionato di altre regioni. Da qui la correlazione tra lavori svolti, luoghi di residenza e aspettativa di vita o speranza di vita. Ma nell’aspettativa di vita, come spiegano i demografi, entrano in gioco decine di altre variabili, dal grado di istruzione alla genetica, che sono difficilmente ponderabili per creare un’aspettativa di vita categoria per categoria.
A livello attuale, la speranza di vita entra in gioco a livello complessivo, come parametro indicato periodicamente dall’Istat, per l’incremento generalizzato dei requisiti di età e di contributi. Il meccanismo fu introdotto dalla riforma del 2009 di Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti e rafforzato dalla riforma di Elsa Fornero alla fine del 2011. Un altro discorso, che lega la gravosità dei lavori e della attività all’uscita verso la pensione, è quello che riguarda l’Ape sociale. Nel corso degli anni sono state individuate molteplici categorie di lavori cosiddetti gravosi, in relazione ai quali si prevede la possibilità di lasciare il lavoro con una forma di indennità che accompagna verso la pensione a partire dai 63 anni. Si tratta di meccanismi, come si vede, specifici e limitati, che non riguardano la generalizzazione del nesso età, lavoro, requisiti.