LO SCORSO MARZO la Commissione ha pubblicato la nona relazione sulla coesione nell’Unione, rilevando, in tema di disoccupazione giovanile, come in un certo numero di regioni, molte in Grecia e Spagna, tra il 2013 e il 2022 si sia assistito ad un calo di oltre 10 punti percentuali. Per contro, in diverse altre aree i tassi di disoccupazione giovanile sono scesi molto meno e tra queste spiccano alcune regioni del centro e del nord Italia come Umbria, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia (con decrementi inferiori al 4%) e l’Abruzzo (con un calo inferiore al 2%) Se a questa “mancata ripresa” dell’occupazione giovanile nella maggioranza delle regioni più sviluppate del paese si aggiunge anche il triste primato italico per numero di giovani che non studiano, lavorano o sono in formazione (Neet) e di giovani diplomati e laureati under 35 che non hanno trovato lavoro, emerge un quadro emergenziale. Ma quali le cause di questa situazione che non può più essere definita una contingenza ma piuttosto un male congenito in Italia? Quattro i fattori, a parere di chi scrive, che non solo ritardano lo sviluppo dei giovani ma anche lo sviluppo del nostro sistema-paese.
Il primo fattore è da ricondurre al persistente divario generazionale che colpisce i nostri giovani. Per fare un paragone con il passato, oggi un giovane, per raggiungere la propria autonomia e dunque poter permettersi una abitazione indipendente, accedere a un lavoro dignitoso e poter assumere la genitorialità responsabile, deve compiere sforzi maggiori di un terzo rispetto a un giovane del 2006. Il secondo fattore è legato allo scarso coinvolgimento dei giovani nei processi che ai vari livelli di governo conducono alla definizione di strategie per lo sviluppo, norme e interventi. L’ininfluenza delle nuove generazioni nei processi decisionali non può essere semplicemente ricondotta alla loro ridotta rilevanza numerica (per il noto fenomeno demografico) o alla loro diffusa astensione alle tornate elettorali, ma deve necessariamente essere relazionata alla mancata attivazione dei processi che, a livello europeo, sono definiti di Youth Empowerment, in grado di facilitare la capacità dei giovani di mettere a fuoco i loro interessi e di promuoverli. Il terzo fattore è connesso alla acclarata difficoltà di perimetrare l’universo giovanile, definito recentemente dal Consiglio dell’Ue come “una moltitudine di identità, con capacità, esigenze, volontà, risorse e interessi diversi, che si trovano dinanzi a svariate sfide e opportunità e provengono da vari contesti educativi, culturali, geografici, economici e sociali”.
L’ultimo fattore di ritardo è costituito dalla assenza, in Italia, di una prospettiva strategica volta ad inquadrare lo sviluppo dei giovani nell’ambito della competitività dell’intero sistema paese. Gli effetti di questa visione miope sono ben esposti dai rapporti annuali dell’Osservatorio Politiche Giovanili della Fondazione Bruno Visentini che evidenzia come un numero consistente dei nostri studenti delle scuole superiori ambiscono a lasciare il paese per assicurarsi una propria vita autonoma. Dati allarmanti che vanno a incrementare sempre di più il fenomeno del brain drain che, a sua volta, rappresenta un doppio fallimento per l’Italia. Da un lato le spese incorse per assicurare ai giovani il completamento del processo di istruzione non si traducono in un investimento; da un altro lato la perdita di capitale umano deprime ancora di più i fondamentali (tasso di occupazione, produttività ora lavoro ecc.) per mantenere elevata la competitività del nostro sistema paese Si apre, dunque, una competizione tra enti locali per attrarre e/o mantenere le giovani risorse nel proprio territorio. Con forte probabilità, infatti, la sempre maggiore affermazione del lavoro agile, in particolare per i lavoratori dotati di diploma o di laurea, permetterà a questi ultimi di scegliere la loro residenza non tanto in funzione della prossimità al luogo di lavoro, come avvenuto sino ad ora e anche per i millennial (i nati dal 1982 al 1999) ma della possibilità di disporre di servizi primari per il proprio benessere e quello dei propri cari. Componenti come la ecosostenibilità della propria abitazione, le condizioni climatiche, l’efficienza delle scuole per i figli, l’accessibilità delle strutture sanitarie e opzioni per l’impiego del tempo livero (offerte culturali, sport, contatto con la natura) saranno determinanti per scegliere dove radicare il proprio centro di interesse.
In questo contesto, mentre a livello nazionale il disegno di legge per introdurre la Valutazione di impatto generazionale delle leggi guarda prevalentemente alle future generazioni e rischia dunque di tradursi in un mero esercizio di stile, bisogna porre attenzione alle prime sperimentazioni a livello locale, che invece si concentrano sulle attuali giovani generazioni. Il Comune di Parma e il Comune di Bologna rappresentano gli apripista in questo ambito, avendo sottoposto a valutazione di impatto generazionale (Vig) i loro documenti unici di programmazione (Dup), individuando le misure generazionali (rivolte esclusivamente a beneficiari under 35) e quelle potenzialmente tali, cioè misure generali che possono avere un impatto significativo sui giovani se adeguatamente promosse presso questa fascia di cittadini. Valutazioni che si basano su dati statistici e rilevazioni a livello territoriale e che, dunque, non solo possono rendere trasparente l’azione politica verso i giovani, ma aprono la strada anche alla compartecipazione di questi ultimi alla “vita politica locale”, con il tanto auspicato e sopra ricordato Youth Empowerment. Un “rinascimento” che ancora una volta parte dal basso e prova a dare una prospettiva concreta e come tale attraente.
* Senior fellow Luiss School of Government
e docente Luiss di Politiche dell’Unione europea