Buenos Aires, 20 novembre 2023 – La lezione dell’Argentina è che a volte le lezioni non servono. O non bastano. Il paese sudamericano che è appena uscito dalle urne con la vittoria di Javier Milei, dovrà fare i conti con un’inflazione del 142%, oltre il 40% della popolazione che vive sotto la soglia della povertà e un debito verso il Fondo Monetario Internazionale di 44 miliardi di dollari. Numeri da brividi, che purtroppo a Buenos Aires non sono una novità.
Il default del 2001
Lo sanno bene anche quei risparmiatori italiani che nei primi anni duemila videro i loro risparmi investiti in titoli di Stato argentini finire al centro di una crisi dalla proporzioni gigantesche e che nonostante fallimenti, rinegoziazioni e promesse, anche oggi, a oltre vent’anni di distanza, resta un problema endemico, legato al ciclo vizioso generatosi tra debito pubblico, inflazione e svalutazione.
Le origini della crisi
A cavallo dell’inizio del nuovo millennio l’Argentina si trovò ad affrontare una profonda recessione, abbinata a un crollo del Pil e a un’esplosione della disoccupazione. Il Governo decise in una prima fase di mantenersi ancorato al rapporto di parità nella conversione tra il dollaro e il peso, ma la popolazione, sempre più preoccupata dalle ombre che avevano riempito l’orizzonte, avviò una corsa agli sportelli per ritirare i risparmi e inviarli all’estero, su conti più ‘sicuri’, in dollari. In questo contesto, il Governo presieduto da Fernando de la Rua rispose bloccando i prelievi (se non per modeste quantità di denaro) scatenando così la rabbia e la proteste degli abitanti, che si riversarono in strada, facendo anche ampio ricorso all’uso della violenza. Che il quadro fosse ormai insostenibile divenne chiaro alla fine del 2001: il Governo cadde il 21 dicembre e pochi giorni dopo venne dichiarato il default del debito pubblico per oltre 130 miliardi di dollari.
I ‘Tango Bond’
In questo contesto si colloca l’esplosione della crisi legata al mancato rimborso dei titoli di Stato argentini, i cosiddetti ‘Tango Bond’, una catastrofe finanziaria che coinvolse anche circa 450.000 risparmiatori italiani, che si erano lasciati convincere dall’attrattività dei tassi di interesse offerti. La partita ebbe strascichi lunghi anni e si ripercosse anche sul quadro che portò a un nuovo default nel 2013, nel quale giocò un peso determinante proprio il tema della ristrutturazione del debito.
Le conseguenze
Il 2002 inizio dunque con l’abbondono della parità di conversione col dollaro, nell’intento di svalutare il peso, favorendo così le esportazioni con l’auspicio di rilanciare l’economia. La moneta locale perse il 75% del suo valore, quello dei depositi privati precipitò di oltre il 30% e la disoccupazione arrivò a superare il 22%. Quasi un quarto della popolazione argentina si trovò senza lavoro.
La ripartenza
I primi spiragli di luce arrivarono l’anno successivo, nel 2003, quando in effetti cominciarono a registrarsi i primi benefici legati alla competitività delle esportazioni – in particolare della soia, i cui prezzo interazionale era fortemente cresciuto –. Contestualmente su fronte interno vennero incentivate le produzioni locali e nuovi prestiti (che potessero essere accessibili) alle imprese. Riguardo al sostengo alla popolazione, vennero implementati i servizi sociali, in particolare quelli rivolti alle famiglie (circa il 60% del totale) che vivevano sotto la soglia di povertà. Il peso iniziò a rivalutarsi, spinto anche dall’avanzo commerciale e il Paese ricominciò ad attrarre progressivamente gli investimenti esteri.
Tra il 2003 e il 2007 in Argentina si registrarono crescite annue comprese tra l’8 e il 9% e i salari videro una spinta media del 17% annuo. Scese anche la disoccupazione, così come pure l’inflazione, rimasta però ampiamente in doppia cifra, con punte del 15%. Il contesto non riuscì quindi a normalizzarsi del tutto, lasciando aperte le ferite dalle quali si generarono le crisi successive. Che i fatti attuali, a 20 anni di distanza, dimostrano essere ancora lontano dall’essere risolte.