Luca
Trapanese*
Viviamo in una società che ci vuole continuamente educare all’inclusione utilizzando questo vocabolo come unico strumento di possibilità di interazione con l’altro. Molto spesso questa parola è relegata alle persone disabili o a chi è fragile, partendo da un "difetto" e non considerando mai, invece, della necessità di essere se stessi. Purtroppo, siamo stati educati a raggiungere modelli di perfezione, sia fisica che emotiva: a scuola, nella famiglia, nelle relazioni. Nessuno però ci dice che la perfezione non esiste e che gli obiettivi che spesso ci vengono imposti sono irraggiungibili. Dobbiamo abbattere il concetto di normalità. Chi si può arrogare il diritto di stabilire chi o cosa è normale? Siamo tutti disabili. Ognuno di noi ha un difetto, piccolo o grande che sia. Ed è da quel difetto che bisognerebbe partire. Non come difetto, ma come capacità in grado di garantirci l’inclusione nella società.
A Milano un’intera classe si è mobilitata in quanto una ragazzina disabile non è potuta accedere in aula. Il mio pensiero è andato ad Alba (la bimba con sindrome di Down che ha adottato, ndr), la loro reazione mi ha commosso. Il problema che abbiamo in Italia è la mancanza di un vero progetto di Stato rispetto al tema della disabilità. Le risposte istituzionali non ci sono e quelle che esistono non rispondono ai reali bisogni delle persone disabili e delle loro famiglie. È una fatica enorme che pesa solo sul genitore. È dovere delle istituzioni fare in modo che la diversità non sia da ostacolo ma fonte di ricchezza per tutta la comunità. È solo partendo da questo concetto che possiamo evitare che all’interno di una scuola, ad una studentessa, come tutte le altre, venga negato un suo diritto fondamentale.
*Assessore al Welfare
di Napoli e genitore
che ha adottato
una bambina
con sindrome di Down