Continua il dibattito sollevato da QN sulle riforme istituzionali, partendo dalla promessa fatta da Giorgia Meloni sul presidenzialismo, da attuare al più presto. Dopo Cirino Pomicino, Sofia Ventura e Giorgio La Malfa interviene oggi Stefano Ceccanti, costituzionalista ed ex parlamentare Pd.
di Stefano Ceccanti
Primo punto su cui riflettere: siamo soddisfatti dello stato delle nostre istituzioni? Nessuno pare che lo sia. Da pochi giorni si è dimostrata anche in questa legislatura una delle anomalie più gravi: il cosiddetto monocameralismo di fatto, la regola per la quale solo una Camera modifica i provvedimenti del Governo, con l’altra che ratifica. Quindi non possiamo più stare dove siamo. Bisogna affermare un secondo punto, riconoscere i nessi tra le disfunzioni degli organi costituzionali e che non c’è, nella loro riforma, un gioco a somma zero, per cui si tratterebbe di favorire l’uno a danno di un altro. Prendiamo ad esempio un fenomeno degenerativo, quello del trasformismo individuale e di un eccesso di gruppi che nascono prima nelle Camere e solo dopo nel Paese. Il Regolamento del Senato ha provato a mettere dei limiti. Tuttavia il fenomeno è connesso all’instabilità di Governo. Ragion per cui lavorare per la stabilità di Governo rafforzerebbe anche il Parlamento. Bisogna poi dire, e questo è il terzo punto, che c’è una strada da non percorrere, quella della forma di governo presidenziale, che sopprime il rapporto di fiducia: la stabilità non evita quindi l’impotenza e le crisi. Non a caso nell’Unione europea esiste solo Cipro. Quarto punto: se si mantiene, com’è giusto, il rapporto di fiducia bisogna anzitutto rimuovere la principale anomalia italiana che danneggia sia il Parlamento sia il Governo, il bicameralismo ripetitivo che pesa sul rapporto fiduciario come una spada di Damocle.
Infine, per completare il sistema, quinto punto, va affrontata la questione della preferibilità di una delle due forme di governo praticate nelle grandi democrazie europee: quella parlamentare nella versione odierna, con Governi di norma di legislatura che scaturiscono da una legittimazione diretta degli elettori oppure quella semi-presidenziale come perfezionata in Francia dal 2000, con un’elezione di un Presidente di mandato quinquennale la cui elezione precede di poco quella del Parlamento, con un sistema elettorale coerentemente analogo, in modo da favorire la nascita di una maggioranza omogenea. Questo fu il dibattito che si svolse nella Commissione di esperti istituita dal Governo Letta e che vide preferire la prima ipotesi.
Nel frattempo, dopo il ritorno a un Governo direttamente legittimato dagli elettori, si è aggiunta come ulteriore argomentazione quella per la quale il modello si sta di nuovo realizzando di fatto e convive molto bene con un Capo dello Stato avvertito come arbitro da tutti. Pertanto il diritto finirebbe per perfezionare il fatto. Nel contesto italiano, di difficoltà da parte dei partiti di realizzare coalizioni post-elettorali stabili, come già chiarito nella relazione finale di quella Commissione, occorre un sistema elettorale che faccia già emergere un vincitore in seguito al voto non con un’elezione diretta separata del vertice dell’esecutivo.
Ad una legge elettorale risolutiva andrebbero poi accompagnate norme dissuasive verso le crisi analoghe a quelle delle grandi democrazie europee. In particolare occorrerebbe “regolare il rapporto intercorrente tra la richiesta di scioglimento da parte del Presidente del Consiglio e la possibilità della Camera di approvare una mozione di sfiducia costruttiva con l’indicazione di un nuovo Presidente”. Parole allora ampiamente condivise e tuttora valide. Ne parleremo a Orvieto, il 14 e 15 gennaio nell’assemblea dell’associazione Libertà Eguale.
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