Cesare
Damiano
Nella manovra progettata dal governo, tra le molte in discussione, vorremmo mettere in evidenza tre criticità di rilievo che riguardano le pensioni. Il governo si è orientato nel disegno della legge di Bilancio ad attuare, per quanto riguarda le pensioni, un cosiddetto ‘progetto ponte’, rimandando una vera e propria riforma del sistema previdenziale al prossimo anno. Questa scelta, oltre al problema dei tempi brevi a disposizione, è anche dovuta al fatto che le risorse disponibili sono esigue.
In cosa si è risolta la manovra elaborata dal governo? Al di là delle affermazioni di bandiera che sono state ripetute oltre il periodo della campagna elettorale, non è stato prodotto un intervento incisivo. Gli slogan utilizzati più di frequente, nel recente passato e nelle scelte che si stanno compiendo, sono quelli delle ‘Quote’: 100, 102 e 103. Più il trito "noi cancelleremo la legge Fornero". Tutto questo non corrisponde alla realtà.
Ed ecco la prima criticità. Come sappiamo, per arrivare ai traguardi fissati da quelle quote, che altro non sono che finestre di accesso alla pensione – perché a differenza delle vere quote non hanno un sistema flessibile ma sono numeri fissi e rigidi – requisito richiesto da questa normativa è una quantità di contributi esageratamente alta: 38 anni per quota 100 e 102. Per quota 103 l’aumento è di ulteriori 3 anni. Arriviamo, così, a un requisito minimo di 41 anni di contributi accompagnato dall’età di 62 anni.
È evidente che tale modalità restringe molto la platea degli utilizzatori potenziali. Chi può raggiungere i 41 anni di contributi? Soprattutto, lavoratori e lavoratrici del settore pubblico; più difficilmente i lavoratori del privato. Distinguendo, in questo caso, tra lavoratori e lavoratrici. Come è noto, queste ultime, hanno carriere più discontinue, che consentono più difficilmente di arrivare al traguardo contributivo richiesto. Dunque, non viene introdotta una reale flessibilità nel sistema e la legge Fornero rimane in piena vigenza.
Seconda criticità. Il governo, affermando di voler aiutare la parte più debole della popolazione, a partire dai pensionati, in realtà, ancora una volta, utilizza le pensioni come un bancomat al quale attingere.
Il taglio della rivalutazione all’andamento dell’inflazione che il governo ha proposto, soltanto in questo 2022, farà risparmiare una cifra che ruota attorno ai 2 miliardi di euro. In dieci anni il risparmio sarà di 36 miliardi.
Terza criticità. Se ci riferiamo al potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni, bisogna dire che, accanto alla decurtazione della rivalutazione delle pensioni al di sopra di quattro volte il minimo, manca un’idea di rivalutazione delle pensioni più basse. A meno che non si considerino i 30 euro al mese di rivalutazione della pensione minima come la soluzione di tutti i problemi. Quando la stessa operazione la fece il secondo governo Prodi, si partì da un taglio dell’indicizzazione delle pensioni che erano otto volte il minimo. La rivalutazione al 100% solo degli assegni che arrivano a quattro volte il minimo, circa 2.100 euro mensili lordi e 1.600 netti, è un severo colpo al ceto medio del lavoro, operai e impiegati che hanno lavorato duramente per 35-40 anni e che vedono ulteriormente compromesso il loro potere d’acquisto.
Infine, se si vogliono rivalutare le pensioni, a partire da quelle più basse, bisogna tenere conto dei contributi versati. Altrimenti, si dà un pericoloso via libera al lavoro nero. Lo strumento più giusto è l’attuale quattordicesima mensilità che può essere potenziata in due direzioni: alzare l’attuale tetto di 1.000 euro lordi mensili (entro il quale si ha diritto all’assegno che viene pagato a luglio di ogni anno) portandolo fino ai 1.500 euro; potenziare il valore della stessa quattordicesima che è distribuita su tre fasce in base ai contributi versati. Sarebbe una vera azione di equità e di giustizia sociale.