Roma, 15 giugno 2019 - Fanno la maturità quelli nati nel 2000, e sono quindi questi i primi esami senza studenti nati nel secolo scorso, a parte qualche ripetente che ci permettiamo di escludere dalla statistica. Finisce così anche ufficialmente, e anche anagraficamente, la prima grande scuola dell’obbligo nata nel nostro giovane Paese con il libro Cuore, la scuola di Gian Burrasca e del maestro Manzi, la scuola del Novecento insomma. Non un secolo, ma un’era geologica sembra passata. Ho un ricordo indelebile del mio primo giorno di scuola, statale De Amicis, metà degli anni Sessanta. C’era ancora, nei vecchi banchi, il calamaio dell’inchiostro nel quale intingere il pennino. Ne svitai uno per curiosità e lo feci cadere a terra, mandandolo in frantumi e sporcando dappertutto. "Sei brutto e cattivo, vai fuori!", mi urlò la maestra, la signora Cazzaniga Iole. All’uscita di scuola dissi a mia mamma, che era venuta a prendermi, che a scuola non ci sarei andato "mai e arcimai più". Se oggi una maestra osasse dire una cosa come quella che mi disse allora la mia, il fatto finirebbe sulle prime pagine dei giornali, il ministero manderebbe gli ispettori e forse qualcuno farebbe un’interrogazione parlamentare. Ma allora era la norma, e nessun genitore si sognava di prendere le difese dei propri pargoli puniti. Alle maestre si dava del lei – non l’orribile tu di oggi – e la signora Cazzaniga Iole era una donna severa, ma direi severa nella norma del suo tempo. Ci obbligava a stare tutte e cinque le ore con le braccia dietro la schiena e divideva la classe in maschi da una parte e femmine dall’altra: quando uno di noi maschi la combinava grossa, per punizione doveva sedersi con le femmine (e anche qui non oso immaginare che cosa succederebbe oggi, probabilmente un arresto).
Ma la signora Cazzaniga Iole mi ha voluto bene, ha voluto bene a tutte le sue centinaia di alunni, ai quali ha insegnato non solo i numeri e le lettere, non solo l’educazione e il rispetto, ma anche a diventare grandi. La cara vecchia scuola del Novecento è stata, sicuramente fino a quegli anni Sessanta, una guida per entrare nel mondo. Noi bambini cominciavamo a vivere la scoperta del diverso da noi, perché i figli dei ricchi erano in classe con i figli dei poveri, e viceversa. Facevamo i conti con le difficoltà e le sofferenze altrui, ricordo un bambino poverissimo venuto dal Sud, qualcuno lo prendeva in giro e la maestra ci gelò: "Non si prende mai in giro un povero, mai". E ricordo come fosse adesso la mattina in cui il prete che insegnava religione venne in classe a dirci che uno di noi aveva una terribile malattia: "Ci vuole un miracolo", disse. Iddio non volle, e per i funerali i nostri genitori ci fecero mettere la giacca della prima comunione: ricordo di quel giorno le lacrime della maestra, ma anche un certo nostro distacco, perché i bambini non hanno il senso della morte. Già negli anni delle superiori molto era cambiato: in classe si poteva fumare e pure mandare a quel paese il prof: in caso di nota, si convocava un’assemblea. La scuola è cambiata perché è cambiato il mondo, non saprei dire se in meglio o in peggio, ma da un pezzo ho l’età in cui prevale la nostalgia.