di Gabriele Moroni
Milano
Da uomo completamente scagionato e definitivamente libero, si vede ora riconoscere l’indennizzo che lo Stato gli deve per il carcere sofferto da innocente. La quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano ha accolto l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da Stefano Binda e riconosciuto la somma di 303.277,38 per 1.286 giorni vissuti in una cella, gravato dall’accusa di essere il feroce assassino di Lidia Macchi, la studentessa di Varese trucidata a Cittiglio, con ventinove coltellate, la sera del 5 gennaio 1987.
Tre anni e mezzo, dal 16 gennaio 2016, con l’arresto all’alba, nella sua abitazione di Brebbia, al 24 luglio 2019, quando, a Milano, i giudici dell’appello avevano annullato la condanna all’ergastolo inflitta dall’Assise di Varese. Assoluzione con formula piena per non avere commesso il fatto resa definitiva dalla Cassazione. Nell’udienza dello scorso 24 maggio, il 55enne Binda, con il suo legale Patrizia Esposito, aveva richiesto un indennizzo di 303.328 euro (303.328,82 per la precisione). C’è quindi un lieve scarto, che si spiega con il fatto che Binda partiva da 235,87 per ogni giorno da detenuto, mentre il conteggio della Corte d’appello è partito da 235,83 euro. Non è stato accolto l’indennizzo di 50mila euro per i danni morali e d’immagine alla famiglia. Il ministero dell’Economia dovrà rifondere 1.500 euro per le spese legali.
Stefano Binda manifesta una pacata contentezza: "La mia innocenza è stata acclarata in maniera assoluta e definitiva. Innocente per non avere commesso il fatto. Ma il punto oggi non è questo. Per tre anni, sei mesi e otto giorni, 1286 giorni in tutto, mi sono visto in televisione e sbattuto in prima pagina sui giornali come l’assassino di Lidia Macchi. Sono andato in carcere a trent’anni dai fatti. Perché solo io? Considerate le condizioni di legge per cui è applicabile la carcerazione preventiva, ho seguito dai giornali la vicende di molte persone che, accusate di omicidio, hanno partecipato a piede libero al processo in cui sono state riconosciute colpevoli. Perché io, a trent’anni dai fatti, sono l’unico che ha dovuto subire la carcerazione, oggi riconosciuta come ingiusta? Penso e spero che il mio caso sia stato un unicum e lo rimanga. Adesso c’è la soddisfazione per il risarcimento che mi è stato riconosciuto, ma rimane l’amarezza per tutto quello che ho passato. Da innocente".
L’ordinanza della Corte d’appello (che potrà essere impugnata dalla procura generale e dall’Avvocatura dello Stato) non ha condiviso le motivazioni portate in udienza dal procuratore generale, secondo cui la condanna al carcere a vita pronunciata dalla Corte di Varese aveva ricostruito l’accaduto con "motivazioni approfondite, corrette, pienamente aderenti alle risultanze probatorie".
Per il giudice estensore Micaela Curami non possono "prendersi come elemento di valutazione per deliberare circa la sussistenza di comportamenti dolosi o gravemente colposi in capo al Binda le considerazioni svolte nella sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise di Varese, in quanto travolta (in toto) dal giudice d’Appello". "In presenza di una sentenza assolutoria definitiva, l’ingiusta detenzione non può più essere messa in dubbio dal giudice della riparazione", che ha davanti a sé un "limite invalicabile": quello "di non pervenire ad una ricostruzione storica del fatto in contrapposizione con quella già espressa dal giudice penale (dell’assoluzione)".